Kvicha Kvaratskhelia, già protagonista dello scudetto con il Napoli, martedì può qualificare per la prima volta nella storia la sua nazionale al torneo. È un campione con tre grandi culture calcistiche alle spalle e tecnicamente due padri: quello vero, Badri, e l’asso del passato a cui più somiglia: Davit Kipiani.
La strada calcistica della Georgia verso l’Europeo di Germania 2024 sembra una parata di occasioni: se martedì batte la Grecia, non solo accede per la prima volta nell’Europa calcistica – allargandola –, ma ci riporta anche una scheggia di Unione Sovietica, la grande assente.
Perché in questo Europeo se accedono alla fase finale Grecia e Ucraina – paradosso intenderla come scheggia sovietica – ci sarebbero tutte le vincitrici presenti nell’albo d’oro meno l’Urss, anche se con pezzetti della sua storia politico-geografica. Ma se vi accede la Georgia ci sarebbero tutte meno la Grecia. Un bivio.
Se manca il paese che ha fondato il pensiero europeo con calciatori e allenatori come Platone, Socrate, Eschilo e Anastopoulos – primatista di gol segnati con la nazionale greca – ci sarà quello che non c’è mai stato, tirando dentro più dell’Ucraina – vista la guerra in corso – la vecchia Unione Sovietica di Lev Jašin che vinse l’Europeo nel 1960.
Uno spareggio carico di significati: la più improbabile a vincerlo – nel 2004 – contro la nazionale che non l’ha mai giocato. La Grecia che vinse l’Europeo in Portogallo era guidata da un allenatore tedesco specialista in biglietti vincenti della lotteria calcistica e in stupore: Otto Rehhagel, che prima dell’Europeo aveva vinto col neopromosso Kaiserslautern il campionato tedesco, evento mai più ripetuto, era il 1997-98.
Quella Grecia si infilò in una serie di eventi, come era accaduto al Kaiserslautern, perché Otto Rehhagel usava la regola rocchiana (non Siffredi ma Nereo): «Prima non prenderle». Per trovare un’altra “favola” del genere, ma con meno lacrime sul bel gioco, bisogna andare alla vittoria della Danimarca nel 1992, con i danesi che ci arrivano ripescati a causa della guerra in Jugoslavia.
Gli allenatori
Insomma, l’Europeo regala una possibilità a tutti, a differenza del mondiale che non ha mai visto vincere una squadra non di tradizione. A parte questi giochi cabalistico-calcistici, c’è da dire che nella partita spareggio di accesso alla fase finale la Georgia ha tutto contro, meno un calciatore: Khvicha Kvaratskhelia.
Su sei incontri con la Grecia, ne ha persi quattro e pareggiati due, non riuscendo mai a vincere. In più la nazionale greca è allenata da un uruguagio, Gustavo Poyet, quindi un assassino dei giorni di festa come direbbe Marco Denevi. Quella georgiana è allenata da un francese Willy Sagnol che a Monaco di Baviera quando giocava col Bayern – c’ha vinto tra le altre cose una Champions League – era Flankengott o “il dio dei cross”.
Poyet è molto attento alle marcature, la fissa gli viene dal basket e da suo padre Washington, che è stato uno dei più grandi giocatori della pallacanestro uruguagia. «Il modo in cui ti giri è simile in entrambi gli sport», raccontava ai tempi del Sunderland, e la cosa suonava come una bestemmia per gli inglesi. La sua Grecia l’altra sera ha vinto 5 a 0 sul Kazakistan.
I cross e la tattica di Willy Sagnol, invece, partono e finiscono con Kvaratskhelia, anche se nella partita spareggio contro il Lussemburgo era squalificato e la Georgia ha vinto con due gol di Budu Zivzivadze. I georgiani possono fare l’impresa e allargare la geografia calcistica europea, ma dovranno liberarsi delle marcature basket-are di Poyet.
Non un problema per il Kvaratskhelia migliore, come hanno imparato a Napoli. Sornione, isolato, lento al limite del sonno e poi improvvisamente – quando si tratta di dribblare e calciare – velocissimo, imprendibile con caviglie flessibili, calcia con entrambi i piedi e si diverte a fare quello che nessuno fa più.
Una faccia, una palla
Ha la barba da Dostoevskij giovane e anche i suoi demoni, che si liberano nelle rulete zidanesche, nelle sterzate Best-iane, negli strappi alla Giggs. Una composizione di note sacre del calcio: ecco Kvara. A volte pare di rivedere Modric, di poter ravvisare una scuola, ma la Georgia è lontana dalla Croazia molti campi di pallone, pastori e matrimoni. Kvara è figlio dell’eco dell’Urss, nato dodici anni dopo la caduta del muro di Berlino, e dieci dopo l’indipendenza della Georgia, aveva sette anni quando ci fu il conflitto in Ossezia del Sud con l’invasione russa del suo paese.
Vampate di guerra che diventano riverberi nella memoria, rinfrescati da una nuova invasione russa, questa volta in Ucraina. Senza quella guerra non sarebbe arrivato così presto al Napoli. Kvara aveva giocato nella Lokomotiv Mosca e nel Rubin – per due stagioni consecutive miglior calciatore giovane del campionato russo – poi a causa dell’invasione di Putin all’Ucraina: lui e la sua famiglia in Georgia hanno ricevuto critiche e minacce per la permanenza in Russia.
Ma la cosa più interessante è che Kvara nasce sette mesi prima che se ne vada il più grande calciatore georgiano, Davit Kipiani, che aveva un padre calciatore proprio come Kvara, che gli impedisce di diventare un medico: dirottandolo sui campi di calcio.
Il resto lo fanno i mondiali del 1974 e Johan Cruyff: la prospettiva di molti, l’opportunità di pochi. Kipiani sogna il mondiale, ma Valerij Lobanovs’kyj non lo farà mai entrare in campo con l’Urss, i georgiani rimarranno convinti che se lo avesse inserito la nazionale sovietica avrebbe vinto i mondiali del 1982.
Il sogno nasceva dal fatto che aveva guidato la sua squadra, la Dinamo Tbilisi – che è anche quella dove nasce Kvara –, alla vittoria della Coppa delle Coppe (1980-81).
I suoi padri
Di faccia Kipiani è diverso da Kvara, somiglia a un incrocio tra Stielike e Corso, ma di piedi si somigliano moltissimo: nella creazione dei corridoi, nei cross, nelle giravolte col pallone per liberarsi dalle marcature.
Il pregiudizio di Lobanovs’kyj verso i georgiani serve anche a trovare le radici dell’eversione calcistica di Kvara, perché fin dagli anni Settanta erano differenti dal calcio sovietico – si fondava su tre grandi blocchi: russo, ucraino e georgiano – cercavano la giocata e prima il dribbling, abusavano del trequartista e inseguivano gli estetismi in modo sudamericano. Kvara, senza la cappa sovietica.
Avrà sicuramente meno opportunità di vincere un mondiale, ma legarlo a Kipiani serve a dargli un orizzonte passato, delle radici di bellezza e talento geometrico, e un padre (calcistico) da eguagliare o superare. La Coppa delle Coppe non c’è più, c’è la Champions League e forse ci sarà l’Europeo dove Kvaratskhelia sembra aver trovato una dimensione per uscire dall’ombra di Kipiani.
Il suo padre vero, invece, Badri Kvaratskhelia, scelse di giocare con la nazionale dell’Azerbaigian (2000), dopo aver giocato nella serie A azera, dove poi allenerà. Questo ci consegna Kvara come un calciatore di confine, doppio, con tre grandi culture e due padri. Un talento che attinge da scuole diverse e arriva a essere un meticcio improvviso per campi di calcio europei.
Un eccesso: stretto tra le catene del Caucaso. Partorito da una pausa di lavorazione della fantasia – Davit Kipiani – e da un pragmatismo di fuga – Badri Kvaratskhelia – il cui risultato è una marca selvaggia di dribbling. Il pallone attaccato all’interno del piede disegna arabeschi velocissimi, che diventano un urlo unitario nel presente, una federazione di calcio e sogni.
Kvaratskhelia discende, incupito e severo prima del tiro cartesiano, poi si libera in un sorriso, dopo aver mandato la palla nell’angolo lontano: tornano la strada, i campetti, le macerie, i cannoni russi e i pomeriggi pallidi d’esito calcistico. La mira viene dalla periferia, il palleggio è affinato dalla paura e il gol è un lampo che forse porterà la Georgia per la prima volta all’Europeo.
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