Uno appariva alla Madonna, l’altro la raffigurava con il volto e il corpo della madre. Da una parte c’è il romantico sospiro della specie dall’altra le infinite capriole poetiche quando il cuore abbaia al vento.

Uno tentava amplessi impossibili su una barca con una corazza ermetica e robusta, l’altro li evidenziava con gioia e sofferenza come quando la notte aspetta la luce del giorno. Carmelo Bene, vent’anni dalla morte e Pier Paolo Pasolini, cento anni dalla nascita, hanno attraversato buona parte del Novecento come due mondi contrapposti. Due costellazioni geniali del firmamento letterario che non hanno mai avuto contatti letterari.

Uno sorrideva alle onde canore recitando i classici come fosse un attore che di volta in volta diventava cantante, prosatore, suggeritore, spettatore in scena, l’altro invece li dipingeva sulla pellicola con una parte luminosa bellissima e una parte in ombra che “nasconde il peccato”. Due mondi, forse paralleli, ma nettamente contrapposti. Eppure…

Una passione comune

Eppure c’è un filo spesso e solido che lega i due artisti. Un filo senza nodi che procede, come in un bel sogno, a intrecciarsi e a sciogliersi all’infinito quasi a formare una rete come quella dei pescatori. O meglio ancora: come quella che, con cura, viene attaccata ai pali e alla traversa di una porta di calcio.

Il punto d’incontro dei due poeti della rappresentazione è il calcio, con tutte le variabili fisiche e letterarie. Il calcio giocato nei campi dei dilettanti, quello dei grandi campioni, quello vissuto dai tifosi davanti alla tv o allo stadio.

Le emozioni, i sentimenti, l’allegria e la sofferenza. Il calcio nella sua essenza principale, in grado di coinvolgere piedi e mente. Il calcio come stupore infantile. Con una differenza: Pasolini, oltre a scriverne, lo giocava, Bene si limitava all’eloquio e ad ammirare i grandi campioni. Per entrambi ogni volta che il pallone entrava in un campo verde era come veder apparire la madonna o aver subito un’ipnosi regressiva verso gli anni della fanciullezza.

Il piacere

Pasolini aveva una padronanza dei gesti tecnici, velocità e capacità di accelerazione, fiato, dribbling, capacità di tirare sia con il destro sia con il sinistro, diligente nel passaggio. Un fisico asciutto e muscoloso e sulle spalle metteva spesso il numero sette, quello delle grandi ali destre di quegli anni.

Come George Best dalla vita sregolata e Gigi Meroni morto tragicamente. Veniva a prendere la palla sulla linea del centrocampo, poi la trascinava verso la porta avversaria, aspettava con pazienza il terzino sinistro della squadra avversaria e ingaggiava un duello che lo portava spesso a tirare in porta. Correva dietro il pallone con una gioia fanciullesca.

Giocava con la meglio gioventù. E quando lo osservavi (dal campo o dalla tribuna) sembrava di vedere il sottoproletariato urbano che tanto amava, quei ragazzi di vita realisticamente raccontati nei suoi romanzi. È stato un buon calciatore.

«Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri» disse in un’intervista a Enzo Biagi. Il calcio, giocato e visto giocare dai grandi poeti del pallone, è, per lo scrittore misteriosamente assassinato a Ostia nel 1975, una cosa seria. Lo chiamavano lo Stukas e sul campo sembrava veramente un aereo da combattimento. Gentile ma tenace. In campo era sempre sé stesso. «Giocavo anche sei sette ore di seguito ininterrottamente». I grandi giocatori sono campioni di pensiero.

Calcio e letteratura

Mi capitava di vedere giocare Pasolini e oggi, a distanza di tanti anni, mi sembra di ricordare nei dribbling e nelle corse sfrenate i suoi romanzi, quasi tutte le poesie, e forse tutti i suoi film. Forse confondo, forse faccio confusione su ricordi cresciuti negli anni, sballottato tra la passione per il calcio e l’amore per la lettura.

Del resto calcio e letteratura vanno da sempre a braccetto, si tengono la mano e si amano alla follia. Sartre officiava di metafora della vita, Montale immaginava partite senza gol, addirittura anche Leopardi parlò di “sudata virtude”. Per non parlare degli scrittori latini, epici e unici, come Borges, Montalbàn, Galeano, Soriano.

Alto e basso

Carmelo Bene invece cercava nei tiri di Van Basten e nell’eleganza di Falcao un’estetica della visione che abbandonasse ogni tattica. Cercava l’altrove voluto da Milan Kundera nel tentativo di dare nuovi colori e forme al passato.

Da Pelè a Maradona a Johann Cruijff e Romario. Spiegava: «Del calcio, e dello sport in generale, mi interessa solo quanto eccede lo sport medesimo, non la routine, non il gioco duro, non importa se a zona o a uomo, non mi interessa il gol in sé, né le tifoserie né il risultato: mi interessano solo gli atti, i gesti straordinari».

I grandi giocatori come i grandi attori. Fuoriclasse sui campi di calcio e sul palcoscenico. Solo con loro il Grande Attore poteva misurarsi nel gioco della rappresentazione.

Il geniale artista che non disdegnava di pisciare sugli spettatori delle prime file affrontava pensieri nietzschiani e ragionamenti socratici duellando con Aldo Biscardi, inventore del Processo del lunedì, programma popolare di gazzarra calcistica e di litigi tra tifosi. L’alto e il basso.

In un gioco di scintille mentali che finiva per rimarcare le sue idee, il contrario e, soprattutto, la sua levatura attoriale con la voce orchestra incorporata. Spesso lapidario e determinato come il suo Pinocchio o fintamente incerto come Amleto.

Come a teatro

Diceva nel 1994 in occasione dei mondiali negli Stati Uniti: «Detesto la Nazionale azzurra, undici ragionieri in mutande allo sbaraglio, senza nessuna remora, senza nessun decoro. Sembra il nostro governo, anzi il nostro sottogoverno, in mutande». Quella nazionale arrivò seconda, e per Carmelo Bene è la cosa più brutta che ti può capitare dopo aver perso.

Parlava di calcio ma intendeva di teatro. Dire a nuora perché suocera intenda. Lo faceva in televisione ma anche in teatro. Era il suo modo di rappresentare la vita. Con il calcio e i suoi campioni d’estetica disegnava i momenti più belli così come con il suo teatro di armonia e follia figurava gli infiniti ruoli da protagonista.

Ho conosciuto Carmelo Bene tanti anni fa. Ero uno studente universitario pieno di speranze e stavo preparando una tesi sul suo film Nostra signora dei turchi. Fu gentile, malgrado la sua fama di enfant terrible.  Mi concesse generosamente un’ora ma per una buona mezz’ora parlò di Camus, Manzoni, Doleuze, Shakespeare e della cattedrale di Otranto. Per l’altra mezz’ora mi parlò di calcio e dei giocatori brasiliani, con la poesia ai piedi. “La vostra gloria, undici ragazzi, come un fiume d’amore…”, scriveva Saba.

Calciatore corsaro

Anche Pasolini non si tirava indietro nel raccontare gli eroi del pallone. Bulgarelli (una mezz’ala del Bologna dello scudetto) è «un prosatore realista», Riva (bomber del Cagliari filosofico campione d’Italia) «gioca un calcio in poesia». Pasolini scrive di calcio ma, a differenza di molti suoi colleghi di penna, è anche giocatore e non a tempo perso o come semplice svago.

Quando prendeva a calci il pallone raccontava il suo carattere, la sua vita, i suoi scritti corsari e no. In campo scendeva con divisa d’ordinanza. Calzoncini, calzettoni, scarpini e maglietta con l’amato numero sette alle spalle. Ma non disdegnava di improvvisare partitelle nei campi di periferia in giacca e cravatta. Era sufficiente che un pallone lo attraversasse per gettarsi nella mischia.

Tanti anni fa in un campetto di terra polverosa, con porte di tubi innocenti e aree disegnate dalla calce bianca, un giovane del sottoproletariato che abitava in una baracca si fermò, dopo la partita, a scambiare qualche battuta con lo scrittore. Gli raccontò che, all’uscita della scuola e prima di tornare a casa, si metteva a giocare con altri compagni. Partite meravigliose piene di energia repressa da cinque ore di lezione, seduti e immobili nei banchi stretti.

Il calcio, la partitella, era una liberazione. Una gioia infantile. Eppure quelle partite non finivano mai perché, quando meno te lo aspettavi, arrivava il vigile in divisa con pancia incorporata che prendeva il pallone e se ne andava. Non si può giocare davanti alla scuola, diceva con un tono odioso. Veniva quasi ogni giorno e portava via il pallone che per i ragazzini di quegli anni poveri era difficile da recuperare.

Quel ragazzo raccontava questa storia a Pasolini che ascoltava attentamente, sorridendo. Invitava il giovane ad avere pazienza ma anche a insistere, magari mettendo una vedetta all’entrata del cortile in grado di scorgere l’arrivo del vigile.

Un gol dietro l’altro

Pasolini era un poeta urbano che sapeva ascoltare, fare domande. Ha raccontato l’Italia di quegli anni evitando le banalità e i luoghi comuni, sempre controcorrente. Il calcio giocato nelle borgate romane ma anche quello visto allo stadio. Il calcio come contesto urbano della sua opera letteraria.

Racconta la scrittrice Dacia Maraini, amica di Pier Paolo: «Ricordo che una volta l’abbiamo perso di vista durante uno dei tanti viaggi in Africa e l’abbiamo cercato dappertutto senza trovarlo. Eravamo preoccupati. Poi improvvisamente, l’abbiamo visto in riva al mare che giocava a calcio con una banda di adolescenti. Era bravissimo e infilava un gol dietro l’altro».

Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini, due stelle del Novecento romanticamente legati al gioco del calcio. Un amore in comune che forse racconta una parte della loro arte. Ma non è l’unico filo che li unisce. Nel 1967 Pasolini gira il film Edipo re e affida il ruolo di Creonte, il re di Tebe, a Carmelo Bene. Ma questa è un’altra storia.

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