È surreale per un ex allievo del Centro sperimentale di cinematografia tornare 27 anni dopo sotto la pioggia, nella granitica palazzina fascista che dal 1935 resiste, obsoleta, tra clacson impazziti e un centro commerciale fané sulla via Tuscolana. Ritrovare alla presidenza della Fondazione l’unico attore che durante il biennio dava un senso al cinema italiano cimiteriale degli anni ‘90 è ancora più surreale, soprattutto se quell’attore è Sergio Castellitto, un gigante della recitazione, uomo dai mille talenti: anche quello di smuovere una delle più antiche scuole di cinema del mondo?

Il Csc è un luogo con enormi potenzialità: una formazione di eccellenza, lo straordinario archivio della Cineteca nazionale, la biblioteca Luigi Chiarini, l’editoria, i teatri di posa. Peccato che a saperlo siamo in pochi, perché il Csc sembra quasi un convento, in cui la quiete viene disturbata a ogni cambio di governo.

Dopo la bufera estiva sull’emendamento della Lega che ha messo la struttura sotto il controllo diretto del governo e provocato le dimissioni anticipate della vecchia dirigenza, ecco il neo presidente Sergio Castellitto in una posizione piuttosto scomoda: quella di un funambolo che si addentra nel bosco della burocrazia. Tra i suoi tanti progetti per rilanciare la Fondazione, un accordo con la Cinémathèque française e un’iniziativa sulla “Diaspora degli artisti in guerra”: tre giorni di incontri con registi, autori, interpreti provenienti da aree del mondo colpite dai conflitti armati.

Prima cosa, Sergio chi glielo ha fatto fare?

Me lo domando quasi ogni mattina. Diciamo che è un'esperienza complessa, entusiasmante, piena di problemi e di insidie. Rimarrò fino a quando riuscirò a unire il piacere alla possibilità e capacità di modificare le cose. Io non ho le competenze di un amministratore delegato o un manager. La mia storia è quella di un attore, regista, scrittore, sceneggiatore, padre di famiglia. Arrivo in un mondo dove le persone lavorano insieme da 20-30 anni, non posso certo aprire la porta con un calcio.

Quanto ci ha pensato prima di accettare l’incarico?

Tutta l’estate, è un'idea venuta a Pupi Avati e la mia prima risposta è stata: No.

Perché no?

Perché non ho mai avuto smanie di potere, e quelle di protagonismo le ho appagate col mio lavoro. Ho trovato comunque intelligente il gesto di questa nuova governance politica, quello di proporre un nome come il mio senza appartenenza partitica. La mia nomina ha un po’ chiuso la bocca a tutti.

Non ha avuto paura di essere strumentalizzato dalla destra?

Per niente, perché sono un uomo libero, non ho nessun legame con il governo. Ho accettato questo incarico solo per spirito di servizio. Cerco di affrontarlo come farebbe un bravo regista che ascolta, se serve cambia, altrimenti no.

Torniamo a quando era ragazzo, che scuola sognava? Se ripensa ai suoi 20 anni, che cosa avrebbe voluto ricevere dall’Accademia?

Quando ho pensato di fare l’Accademia, lavoravo già in un'azienda di distribuzione di giornali da due anni. Ho maturato e esercitato la mia vocazione attraverso la frustrazione che mi dava quella vita. Ogni giovane vuole rompere un vetro, io per una serie di circostanze ci sono riuscito e ho scoperto la libertà. Sono cosciente e grato di aver ricevuto tanto dalla vita: successo, soddisfazioni. Per questo non ho nessun bisogno di vantarmi con questa carica. Non mi interessa il potere, ma l'amministrazione culturale, secondo un’intenzione.

E quindi che cosa vorrebbe dare a questi ragazzi?

Intanto vorrei frequentarli di più, frequento troppo i dirigenti. È forse vampirismo, ma sono convinto che stare insieme ai giovani mi faccia bene, anche se sono a volte velleitari o insopportabili. C'è un sangue dell’intelligenza e dell’irrazionalità che è un nutrimento prezioso.

Ma l'arte secondo lei si può insegnare?

L'arte si può trovare, perdere, ritrovare. Il nostro compito è quello di coltivare il talento, e anche di smascherare le velleità. Ci occupiamo di una materia aleatoria, e ho imparato che è inutile ingabbiarsi in un manifesto didattico.

Quindi per lei fare il presidente della fondazione Csc è un po’ come fare il regista, giusto?

Che cos'è il regista se non un organizzatore del talento degli altri? Il regista dice “Azione” ma lavora con altre personalità altrettanto decisive, come sceneggiatori o produttori. La nostra non è un’arte solitaria ma di solitudine, non mi sono mai sentito più solo di quando ero circondato da 80 persone sul set.

Pensando alla sua carriera da attore e poi da regista, da chi ha imparato di più?

Da tutti, molto dai fessi che ti aiutano a sviluppare e correggere il tuo pensiero. A me piace l’opera, la realizzazione finale. Non mi basta fare un’ottima performance, mi interessa la costruzione, il rapporto con il regista, la sua intelligenza. Sono un attore che tende a correggere o a tagliare la battuta, in questo senso, il vero attore è quello che diventa autore di se stesso. Prendi Penelope Cruz in Non ti muovere, è l'attrice più obbediente che io abbia mai diretto, ma dietro alla sua disciplina ferrea c’era un’autrice che ha completamente reinventato il suo personaggio. Ora che ci penso, sarebbe interessante organizzare un seminario con Penelope Cruz al Csc.

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Posso dire che lei è piuttosto inafferrabile? Da attore sempre in bilico tra maschera e interiorizzazione, poi c’è il Castellitto regista e ora anche presidente, quand’è che lei c’è veramente?

Io ci sono sempre, sono felicissimo di cominciare un film e sono strafelice di finirlo. Perché so che sono straordinarie parentesi, come delle anestesie che regalo alla mia vita. Per esempio, mi è successo di avere un mal di denti terribile sul set. Appena dicevamo: “Motore” mi passava il mal di denti, appena gridavano “Stop” mi ritornava. Recitare è una placenta in cui ti infili, stai nell’acqua, poi ti dicono “Stop” e ritorni sulla tua sedia a custodire in totale solitudine il legame con quella parentesi.

Questa è un ottima lezione da dare uno studente di recitazione.

Certo, è importante condividere la propria esperienza. Poi c'è tutto un artigianato della recitazione. Certe volte, mentre recito in primo piano, penso al mio alluce che sta fuori campo, e questo mi aiuta a liberare la parola. Recitare è artificio, arte, menzogna. Poi dipende molto dal regista con cui lavori, a volte li devi ingannare, gli dici: “Poi la correggiamo… ma se intanto provassimo a fare la scena così?”. Se la proposta gli piace, sei tu ad aver costruito il movimento di macchina.

Le capita spesso di manipolare i tuoi registi?

Manipolo… partecipo. Dipende dal loro grado di intelligenza e di opportunismo. Ai registi non devi mai dire una buona idea davanti a testimoni, devi dirglielo a quattr'occhi, così può essere che la fa.

Facendo un bilancio della sua carriera, si reputa fortunato?

Sono stato allievo di gente come Scola, Monicelli, Ferreri e, fratello minore di una generazione fatta dagli Amelio, Bellocchio, Tornatore. E poi ho avuto anche la fortuna di lavorare con dei giovani per cui sono stato come una specie di cerniera. Sono stato fortunatissimo, però la fortuna te la devi guadagnare, io so quello che ho dato e so quello che ho ricevuto.

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