L’ultimo corridore di casa primo sugli Champs-Élysées è stato Bernard Hinault nel luglio del 1985. In questi quarant’anni molte cose sono mutate nel mondo delle biciclette. Sono arrivati britannici, australiani, sloveni. I Mondiali si correranno in Rwanda. Sono diversi gli allenamenti, il modo di nutrirsi, le attrezzature. In Francia come in Italia non siamo riusciti a tenere il passo di questi sviluppi. Gli altri corrono, noi ci siamo voltati indietro, a ricordare quando eravamo re
I campi di girasoli, le baguette sotto braccio, le Gauloises senza filtro, le albicocche roventi, le seggioline da pic-nic (ma loro lo chiamano pique-nique): non sono luoghi comuni, la Francia profonda è davvero così. Come se uno venisse in Italia e ci trovasse a suonare il mandolino, a correre in Vespa per il centro di Roma con Audrey Hepburn sul sedile di dietro, o a mollo nella Fontana di Trevi a dire a Marcello di buttarsi anche lui. Provate a passare tre settimane al Tour de France e vedrete la differenza tra Francia e Italia ai bordi della strada: loro si fermano ancora quando passa il Tour, noi siamo diventati più cinici, più distratti, forse cinici e distratti insieme.
L’Italia che nell’ultimo dopoguerra si aggrappava al Giro per risentirsi una adesso è divisa. La Francia trova ancora nella sua corsa nazionale una ragione per sentirsi grande. Anche se vivono in un eterno paradosso: sono passati quarant’anni dall’ultima volta che un corridore francese ha vinto la Grande Boucle.
C’era una volta Hinault
Era Bernard Hinault, e quello era il quinto Tour che vinceva. Cinque come un altro grande francese, Jacques Anquetil. Come Eddy Merckx, che ha appena compiuto ottant’anni. Più tardi sarebbe arrivato anche Miguel Indurain, il Navarro, che i cinque Tour li vinse tutti di fila. Il 21 luglio 1985 Hinault trionfava sugli Champs-Élysées dopo aver già vinto il Giro. Non poteva immaginare che da allora, a ogni vigilia di Tour, qualcuno gli avrebbe chiesto «che effetto fa essere stato l’ultimo francese». Una, due, tre, quaranta volte. Oggi Hinault ha settant’anni, e all’Equipe ha detto ridendo che l’unico record che gli interessa battere è quello di Raphaël Géminiani, morto sei mesi prima di compiere cent’anni. Come non capirlo: gode di ottima salute, è sposato con la sua Martine da cinquant’anni, vivono ancora in Bretagna e sono due volte nonni. Ma quando gli chiedono del ciclismo francese Hinault non ride mai, anzi non perde occasione per tirare bastonate ai suoi eredi. Colpevoli di non avere abbastanza fame, di porsi obiettivi modesti, di non saper osare.
I numeri italiani
Gli italiani sono consapevoli che questo è il periodo più avaro di successi per il loro ciclismo. Eppure dal 1985 a oggi diciotto volte il Giro è stato vinto da corridori italiani: Visentini, Bugno, Chioccioli, Gotti (due volte), Pantani, Garzelli, due volte ciascuno Simoni e Savoldelli, Cunego, Basso (due volte), Di Luca, Scarponi, per arrivare ai due successi di Nibali, l’ultimo nel 2016. Negli ultimi quarant’anni, se è per questo, gli italiani hanno vinto anche due Tour: con Marco Pantani nel 1998 e con Vincenzo Nibali nel 2014. In tutto questo, nessun francese. Da Hinault in poi, oltre ai due corridori italiani, hanno vinto americani (3, e ovviamente non contiamo i sette Tour cancellati a Lance Armstrong, che hanno lasciato un buco nell’albo d’oro dal 1999 al 2005), irlandesi, spagnoli (10), danesi (3), tedeschi, lussemburghesi, australiani, inglesi (6), colombiani, fino ad arrivare ai tre Tour sloveni negli ultimi cinque anni, tutti e tre di Tadej Pogacar. Francesi mai. Hinault attribuisce la fetta più consistente di colpa a quella che secondo lui è una pericolosa attitudine dei suoi connazionali. «Quando si gareggia ad alto livello, si vuole vincere. Ma da anni i francesi all'inizio del Tour partono dicendo che sperano di piazzarsi nei primi 10 della classifica. Hai mai sentito uno che scende in campo per pareggiare e poi vince? Escluso».
I confini allargati
In realtà c’è un’evidente ragione geopolitica: per il suo primo secolo il ciclismo non è mai uscito dai confini dell’Europa occidentale, con paesi come Belgio, Francia, Italia e Spagna a dominare, ma nel nuovo millennio questo sport si è aperto al resto del mondo. Sono arrivati sudamericani, inglesi, australiani. L’Europa si è allargata: abbiamo avuto campioni di ciclismo dall’Est e dal grande Nord. Ora c’è anche l’Africa, che ha cominciato a vincere e quest’anno ospiterà i primi Mondiali. A farne le spese sono stati i paesi che erano abituati a comandare e adesso si trovano a dover dividere la torta in molte più parti. Non soltanto i francesi non vincono il Tour dal 1985, ma in questi quarant’anni sono praticamente spariti dal podio: appena quattro secondi e un terzo posto. «In questo mondo allargato abbiamo perso l’orientamento. Ci sono corridori davvero affamati, nessun francese può competere con loro in termini di motivazione», spiega ancora Hinault. E aggiunge che i corridori non sono gli unici responsabili. «Dopo il quarto posto al Tour del 2022, David Gaudu è stato trattato come se avesse vinto, o quasi». Già che ci siamo, il fuoriclasse bretone tira una secchiata d’acqua gelata addosso a chi parla già di Paul Seixas, 18 anni, come di colui che presto riempirà questo imbarazzante vuoto. «Intanto vediamo se vince il Tour de l’Avenir». Che è la corsa riservata agli Under 23.
L’evoluzione
Di qua dalle Alpi siamo abituati a dare tutte le colpe della crisi all’assenza di squadre italiane nel World Tour, la Serie A del ciclismo. Ma i francesi non hanno neanche questa scusa: sono la nazione con più squadre (4) nel World Tour. E allora è questione di talento («Non ci sono più grandi campioni in Francia in grado di vincere il Tour, i migliori francesi possono occasionalmente competere con i migliori in assoluto, ma non possono puntare alla vittoria finale»), di abnegazione («per vincere il Tour non devi pensare ad altro per un anno intero»), di programmazione («potevano almeno fare come Alaphilippe, che non è riuscito a vincere un Tour ma ha portato a casa due mondiali»).
La verità è che il ciclismo si è evoluto: sono diversi gli allenamenti, il modo di nutrirsi, le attrezzature. E in Francia come in Italia non siamo riusciti a tenere il passo di questi sviluppi. Gli altri correvano, noi eravamo voltati indietro, a ricordare quando eravamo re. Senza capire che nel momento in cui il mondo improvvisamente si allarga e la competizione diventa globale, la qualità diventa più pesante della quantità e quindi la soluzione non può più essere fare come si è sempre fatto. Così ci si trova a dover rincorrere, ed è sempre tardi. Per esempio si potrebbe copiare da quelli bravi, non è così disonorevole. A patto di voler ammettere che c’è qualcuno che lo fa meglio di noi.
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