«Ain’t I a woman», non sono io una donna? Con queste parole, pronunciate nel 1851 alla Women’s Convention di Akron, Stati Uniti, l’ex schiava e attivista abolizionista Sojourner Truth denunciava i confini angusti della categoria di “donna” presa a riferimento dal movimento suffragista, mentre indicava la strada per ripensarla ed estenderla.

In una recente intervista al Guardian, la filosofa Judith Butler afferma: «La categoria di donna può cambiare e cambia, e abbiamo bisogno che sia così. Politicamente, assicurare maggiori libertà alle donne richiede che ripensiamo la categoria di “donne” per includere queste nuove possibilità». Quindi, «non dovremmo essere sorpresi o contrari» quando questa «si espande per includere le donne trans».

I centosettant’anni di femminismo che dividono queste due dichiarazioni sono anche la storia di una contesa sulle possibilità e i limiti di un concetto, quello di “donna”, che è da sempre non solo (e non tanto) biologico, ma storico, culturale, politico. È la storia che ha portato a mettere a fuoco la nozione di “genere” in quanto distinta da quella di “sesso”, e definita come insieme di norme sociali che organizzano la distinzione tra donne e uomini.

Essere e dover essere

L’antropologa Gayle Rubin, nel saggio del 1975 The Traffic in Women scriveva «noi non siamo oppresse solo come donne, siamo oppresse per dover essere donne o uomini, a seconda dei casi». E questo «dover essere» altro non è che il sistema di potere che trasforma l’anatomia umana in prescrizioni di ruoli e funzioni.

Parallelamente, negli ultimi decenni del secolo scorso, la categoria di “donna” è stata soggetta a tensioni teoriche con l’introduzione della nozione di “intersezionalità”, che indica l’intreccio di diverse identità sociali e delle relative forme di discriminazione o oppressione. In base a questo approccio, non esiste niente di simile a un soggetto universale chiamato “donne”, ma un collettivo attraversato da tante differenze quante sono le posizioni sociali, le distinzioni di classe, “razza”, etnicità, orientamento sessuale ecc.

Se quindi il femminismo ha cominciato con il rivendicare l’appartenenza delle donne all’umanità e l’accesso alla pienezza dei diritti, è proseguito chiedendosi – per citare Simone de Beauvoir – come «si diventa» donne, e poi cosa unisce le donne tra loro e cose le divide, quali vite di donne abbiano valore e quali invece rischiano di rimanere invisibili e neglette. Ognuno di questi passaggi è stato accompagnato da conflitti non solo tra il femminismo e i vari attori e poteri avversi, ma anche tra voci diverse all’interno del femminismo stesso.

Oggi, la questione più controversa è quella sollevata da Butler: il “posto” delle donne trans nel movimento e la loro possibilità di definirsi, appunto, donne. Al centro, c’è la contesa sul significato del termine “genere” e in particolare della nozione di “identità di genere”. Una contesa che provoca non solo dissidi di carattere teorico ma anche forti polarizzazioni politiche come ha dimostrato, in Italia, lo scontro tra femministe favorevoli e contrarie al ddl Zan sui reati di omofobia e transfobia.

Identità di genere

Le questioni sono numerose e non semplici. Cosa unisce tra loro i soggetti che chiamiamo “donne”? Il sesso, ovvero la fisiologia dei corpi, o il genere, cioè le norme sociali che danno significato alle differenze corporee? Cosa significa che abbiamo un’“identità di genere”, cioè un sentimento profondo di essere donne o uomini, che in alcuni individui (le persone trans) non corrisponde al sesso assegnato alla nascita? Significa che il corpo – e in particolare il corpo femminile, con la sua specificità – non conta? Oppure significa che il binarismo maschile/femminile dei sessi e dei generi non basta a contenere la complessità e variabilità dell’esperienza sociale del corpo?

Attraverso le risposte a queste domande oggi il femminismo si divide, facendo emergere due principali posizioni. Da una parte c’è il transfemminismo, che contesta il binarismo sessuale e mira a connettere le lotte femministe a quelle della galassia Lgbt come strada per la liberazione; dall’altra, il femminismo che si definisce “gender critical”, per il quale – si legge in documenti come la Declaration on Women's Sex-Based Rights del gruppo transnazionale Women’s Human Rights Campaign – la categoria politica centrale deve essere quella di “sesso”, non quella di “genere”, tantomeno di “identità di genere”. La Declaration difende, per esempio, l’importanza che le leggi e le politiche mantengano il «significato della categoria “donna” come femmina adulta della specie umana», e «della categoria “madre” come genitore di sesso femminile», con «l’esclusione degli uomini che dichiarano di avere un’“identità di genere” femminile da suddette categorie».  

Ci troviamo, con ogni evidenza, di fronte a un conflitto senza possibilità di conciliazione. La distanza è quella che passa tra chi crede che siamo inevitabilmente condizionati da norme relative al genere, e che per cambiare quelle oppressive la forma più efficace di contestazione sia la sovversione del binarismo, e chi invece pensa che riconoscere il binarismo sessuale sia una condizione indispensabile per il femminismo.

Un ruolo nel presente

Va ricordato che questa non è certo la prima feroce divisione all’interno del movimento. In un articolo pubblicato sul New Yorker, la filosofa di Oxford Amia Srinivasan ripercorre la storia di quelle che, dagli anni Settanta in poi, sono state chiamate “sex wars” su temi come la pornografia e la prostituzione: le femministe radicali da una parte, le femministe pro-sex dall’altra. Oggi, intorno ai confini della categoria di donne si combatte la più importante nuova “guerra” in cui precipitano le tensioni di decenni.

Nei media, simili conflitti sono spesso rappresentati come lotte nel fango, cariche di emotività. Lo stesso movimento femminista li vive con un senso di vergogna e fallimento, a differenza – nota Srinivasan – dei grandi conflitti tra pensatori (maschi) della sinistra, che invece «sono considerati come mappature istruttive delle possibilità intellettuali». Per contrastare questa tendenza è necessario quindi dare dignità a queste divergenze teoriche e politiche, e affrontarle non solo nelle stanze dell’accademia ma anche nel discorso pubblico.

In questi giorni, per esempio, è in corso il festival femminista “Re/sister!” organizzato dalla Casa delle Donne di Parma e dal comune di Parma, con un fitto programma di incontri che mettono a tema proprio le “parole difficili” che tendono a essere divisive, come “sex work” o “identità di genere”. Un’occasione preziosa per dare conto della complessità dei ragionamenti che si circondano questioni come la prostituzione, la sessualità, il genere, i diritti Lgbt. 

Al di là delle divisioni, però, occorre interrogarsi anche sul ruolo che il movimento delle donne intende svolgere nella politica del presente. Si potrebbe dire, infatti, che al di là dei posizionamenti teorici è la realtà del mondo a richiedere che il femminismo si impegni nell’opera di costruire coalizioni tra soggetti diversi, accomunati dalla vulnerabilità agli attacchi di una destra populista che è al tempo stesso anti-femminista, omofobica, transfobica e razzista.

Se già a metà dell’Ottocento Sojourner Truth, attraverso il ripensamento dell’idea di donna, poneva il problema dell’alleanza tra femminismo e abolizione della schiavitù, oggi la politica radicale a cui il movimento delle donne vuole ambire sembra non potersi sottrarre all’imperativo che pone Judith Butler nell’intervista: «Costruire legami tra le persone povere, precarie, diseredate, Lgbt, lavoratrici, e tutti coloro che sono soggetti al razzismo e alla sottomissione coloniale. Questi non sono sempre gruppi o identità separate, ma sono forme di assoggettamento sovrapposte e interconnesse».

Un femminismo meno preoccupato dei propri confini identitari, più impegnato nella ricerca di nessi politici, è forse ciò di cui questo tempo ha più urgentemente bisogno. 

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