Nel momento in cui scrivo la campagna di boicottaggio #CancelNetflix ha raccolto 640mila firme in tutto il mondo e causato una grossa perdita in borsa al titolo del gigante americano. Soprattutto, #CancelNetflix si è dimostrata una campagna estremamente simbolica di alcuni meccanismi chiave del nostro tempo. Questo, in breve, il riassunto di quello che è accaduto: Netflix ha messo online Mignonnes, un film francese premiato al Sundance film festival – un’opera che tratta dell’ipersessualizzazione delle bambine – e lo ha annunciato attraverso una locandina in grado di attirare l’attenzione di quel genere di persona che sta tutto il giorno su Twitter a controllare che non ci sia per sbaglio al mondo qualcosa che non risponda esattamente al suo volere per poi denunciarlo seduta stante. Nel caso specifico l’immagine ritraeva le attrici preadolescenti di Mignonnes nella scena più disturbante del film, il climax drammatico del lungometraggio, il momento cioè in cui, vestite come le ballerine dei video musicali, si esibiscono in pose ricalcate in maniera grottesca e inquietante su quelle delle loro omologhe adulte. Il risultato è stato un boicottaggio globale contro il film, accusato immediatamente di istigare alla pedofilia.

Netflix si è scusata ma sull’onda dell’indignazione popolare (e in un momento comunque di difficoltà per alcuni titoli tech) ha perso 8 miliardi di dollari di valutazione in borsa. Non è chiaro a quanto ammonti precisamente il danno dovuto al boicottaggio e quanto invece la perdita sia da attribuire ad altri fattori tra cui quello congiunturale, ma è certo che il boicottaggio ha avuto un effetto economico negativo per il servizio di streaming americano, e tutt’altro che residuale. Il film, ben lungi dall’essere un’apologia della pedofilia, è come detto una critica – ben riuscita – alla prematura sessualizzazione delle bambine nella società digitale, non una sua celebrazione, ma l’indignazione su Twitter non è nata dalla visione del film completo, bensì dal singolo manifesto o dalla clip del già citato ballo di gruppo nel finale, estratti del tutto parziali ma comunque più che sufficienti per causare l’ira istantanea di centinaia di migliaia di persone in tutto il pianeta. In pratica sul social si è perso il contesto e il contenuto ha finito così per significare l’esatto contrario di quello che voleva significare originariamente, e ha triggerato quei censori di mezzo mondo che in maggioranza non perdono un secondo a capire a cosa si trovano di fronte ma promuovono seduta stante quei boicottaggi con cui possono avere la sensazione di salvare il mondo comodamente dal loro telefono.

Estrapolazione emotiva
Va da sé che un alieno che vedesse su un ipotetico TwitterGalaxy questi tweet terresti che denunciano, riportandoli, i manifesti e i video del film potrebbe lanciare un boicottaggio contro i boicottatori perché mostrano immagini compromettenti di bambine. Il punto di tutta la vicenda è, infatti, che quando l’intera architettura comunicativa della piattaforma digitale permette l’estrapolazione emotiva di un contenuto dal suo contesto – anzi l’incentiva perché chi denuncia un presunto scandalo ottiene attenzione, la moneta corrente del mondo social –  nessun discorso che non sia quello dell’oltraggio subito è più possibile, perché non è più possibile alcuna reale argomentazione, solo ombre di significati, reazioni morali istintive che finiscono per ottenere il risultato opposto a quello che si prefiggono e nascondo, con il loro rumore assordante, ogni possibile obiezione. Tantomeno è possibile ogni forma di critica, visto che per definizione la critica deve riproporre al suo interno anche l’oggetto di cui sta parlando e questo mette in moto il circolo vizioso descritto qui sopra.  I boicottatori vanno dal senatore repubblicano Ted Cruz ai numerosi complottisti di QAnon, un gruppo di persone che crede che Hollywood e l’industria dell’intrattenimento siano dominate dai pedofili. Molti di loro hanno ammesso di non aver visto Mignonnes (Cuties, nella sua versione inglese), sottintendendo che non ci sia bisogno di vedere un film tanto oltraggioso prima di condannarlo. Per la cronaca io Mignonnes l’ho visto, ed è un bel film, molto divertente nella prima parte, quella in cui si forma la piccola gang di teppistelle ossessionate dai video online, proprio come le loro coetanee nel mondo reale sono consumatrici e produttrici di video di balletti su TikTok su YouTube,  e poi mano a mano più drammatico, fino ad un finale che si interroga sulla prematura perdita dell’innocenza delle bambine nella nostra epoca. La regista è Maïmouna Doucouré che per sua fortuna – visto quello che è accaduto – almeno non è un maschio bianco etero con antenati vichinghi ma una franco-senegalese e ha un tocco assieme leggero e drammatico, realistico e poetico, insomma, è brava. Non edulcora nemmeno per un momento la drammatica condizione subalterna delle donne all’interno della comunità musulmana in cui vive la protagonista del film – la madre della protagonista deve subire obtorto collo il secondo matrimonio del marito, poligamo proprio come il padre della regista – racconta anche le ossessioni per la magia delle donne di famiglia e insomma mette ben in chiaro come anche il decadimento dei nostri costumi, rispetto a tutto questo, possa risultare attraente per una bambina che cresce a cavallo di due culture e che in quella occidentale può comunque trovare più riconoscimento per il suo corpo e per la sua libertà individuale. Come questo richiamo non però sia a sua volta privo di rischi è precisamente il tema del film. Insomma, parecchia carne al fuoco ma Doucouré la gestisce sempre con sicurezza. Questo non le ha impedito – una volta scatenatosi il boicottaggio globale – di ricevere numerose minacce di morte, ma anche il sostegno del governo francese che ha annunciato che il film sarà usato come materiale didattico nelle scuole (ve la immaginate il ministro Azzolina prendere una decisione del genere? ). Due altre osservazioni che si possono ricavare da questa ennesima campagna di boicottaggio.

Boicottaggio conservatore
Si tratta di uno dei primi grandi boicottaggi che arrivano dall’area conservatrice, che sta cioè facendo tesoro delle modalità di azione dei social justice warrior (Sjw) – i censori del politicamente corretto – e in uno dei primi tentativi con questa tecnica di lotta ottiene un successo clamoroso. Questo perché se i boicottaggi che riguardano il mondo dei media, i creativi e i militanti digitali – che tutti assieme sono una piccola minoranza, per quanto influente, della popolazione – possono avere un peso, ma il peso di azioni simili quando vengono adottate proprio da quel popolo che di solito è oggetto di critiche di ogni tipo da parte delle élite culturali, l’effetto economico può rivelarsi molto più pesante.

Faccio un esempio concreto di quello che intendo: fortunatamente la stragrande maggioranza delle persone non sono né razziste né omofobe quanto vengono dipinte dai Sjw, ma mettiamo per ipotesi che lo fossero davvero e incominciassero ad utilizzare i boicottaggi economici come forma di lotta a favore di queste idee sbagliate, chi credete che finirebbero prima o poi per appoggiare, prima velatamente e poi apertamente, le multinazionali quotate in borsa che devono rispondere ai loro azionisti? La maggioranza dei loro consumatori o la minoranza dei militanti? Ecco un altro buon argomento contro boicottaggi e censure: la libertà di espressione sul lungo periodo tutela sempre le minoranze più che le maggioranze, è nata, anzi, proprio per questo scopo. Non andrebbe anche mai dimenticato che i primi a normare il cosiddetto «discorso d’odio» furono la Germania del secondo reich nel 1871 e il regime fascista nel 1930. Naturalmente a loro favore.

Non bisogna però nemmeno compiere l’errore – sempre più di diffuso – di pensare che gli “altri” siano in tutti stupidi, per cui bisogna anche ammettere che almeno una parte dei boicottatori avranno capito perfettamente come il film volesse essere una critica ma ciononostante non credono che sia legittimo mostrare immagini di quel tipo (non pedopornografiche ma comunque disturbanti) di bambine anche se con esse si vuole compiere una critica sociale. Questa è senz’altro un’opinione legittima alla quale però si dovrebbe rispondere che nella società occidentale è garantita la libertà di espressione così come quella artistica, anzi, fra tutte le caratteristiche delle democrazie avanzate questo genere di libertà sono fra le più preziose perché si fanno precondizione per tutto il resto. Buona fortuna però a chi volesse sostenere questo argomento dopo aver promosso per anni censure, bigottismi, lottizzazioni, identity politics, caccia alle streghe e tutto quello che può contribuire a distruggere l’arte come strumento impareggiabile per la conoscenza dell’essere umano. Non si è molto credibili a difendere il diritto di critica dopo che con una leggerezza imperdonabile assieme a degli autentici colpevoli si sono aggredite anche le vite, le carriere e le famiglie d’innocenti – vale a dire anni di lavoro, d’impegno, di legami e di emozioni umane – e tutto per il solo piacere lungo trenta secondi di un tweet. È probabile che ora nelle parole di coloro che riscoprono la libertà di espressione solo quando riguarda la loro tribù, il resto del mondo riesca a sentire solo rumore di unghie sugli specchi. Perché quando si distrugge il discorso pubblico, si rinuncia al dialogo e al dibattito, alla sfida intellettuale, al confronto per sostituirlo con la censura e si divide la società in infiniti sottogruppi che hanno la pretesa di definire in toto una persona, si apre un vaso di Pandora le cui conseguenze possono diventare del tutto fuori controllo.

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