Il costo del glutine. Il buono non basta se i prezzi si alzano

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L’unica terapia possibile consiste in una dieta completamente priva di glutine, da seguire a tempo indeterminato. Sono oltre 265mila persone in Italia che soffrono di celiachia, ma si stima che il numero reale sia ben più alto, considerando i casi ancora non individuati. Eppure vivere senza glutine resta oggi un impegno non solo sul piano clinico e psicologico, ma anche economico. Il boom del “senza glutine” per chi non è celiaco, tra marketing e influencer delle diete ingannevoli Il costo Chi deve acquistare alimenti certificati senza glutine lo sa bene: i prezzi sono tutt’altro che accessibili. Numerose analisi di mercato hanno confermato che i prodotti destinati a chi soffre di celiachia possono costare da tre a cinque volte di più rispetto alle alternative convenzionali. Pasta, pane, farine, snack e biscotti diventano così spese particolarmente gravose. Le ragioni sono strutturali. Si tratta di un mercato ristretto, che non consente grandi economie di scala. Inoltre, la produzione richiede materie prime alternative, processi di lavorazione dedicati per evitare contaminazioni crociate, procedure di sanificazione dedicate, rigidi protocolli igienici, controlli di qualità aggiuntivi e, spesso, ricerca tecnologica per garantire la palatabilità dei prodotti. A ciò si aggiungono gli investimenti in ricerca e sviluppo, indispensabili per garantire qualità organolettiche accettabili e una maggiore varietà di prodotti. Questi costi si riflettono lungo tutta la filiera, fino al consumatore finale, che è costretto a spendere molto di più per mangiare in sicurezza. Non va sottovalutato, inoltre, il ruolo della distribuzione: gli alimenti gluten free si trovano principalmente in farmacie, dove i prezzi sono spesso più alti, negozi specializzati, con un’ampia offerta, ma difficoltà a competere sui prezzi, e nella grande distribuzione, che offre prodotti più accessibili ma spesso limitati alla gamma base. L’allergia ai piselli è figlia dei nostri tempi Più attenzione, più spese Ma il problema pare non si fermi tra gli scaffali del supermercato. Anche mangiare fuori casa, per un celiaco, può diventare complicato e leggermente più dispendioso. I locali che propongono un’offerta senza glutine, per essere davvero sicuri, devono adottare procedure rigorose: formazione del personale, procedure Haccp più complesse, linee separate per la preparazione, e naturalmente ingredienti certificati. Il risultato? Un pasto gluten free può arrivare a costare qualche euro in più rispetto a quello standard. Pizze, primi piatti o dolci preparati “gluten safe”, infatti, non sono solo più costosi da produrre, ma richiedono un’organizzazione interna ben più articolata rispetto alla ristorazione tradizionale. E questo, inevitabilmente, si riflette sul conto. Per compensare i costi della spesa, il Servizio sanitario nazionale prevede un contributo economico mensile: un’assistenza integrativa sotto forma di buono da utilizzare per acquistare prodotti. Si tratta di un aiuto, pare tra i più avanzati in Europa, con un valore che può raggiungere circa 950 euro l’anno per paziente. Ma il sistema ha dei limiti. Il buono può essere usato solo per gli alimenti inseriti in uno specifico Registro ministeriale, e in molti casi non copre prodotti base o materie prime naturalmente prive di glutine. Questo rende difficile, per chi desidera cucinare in casa in modo vario e sano, farlo senza affrontare spese extra. Inoltre, il buono è riservato esclusivamente ai pazienti con celiachia diagnosticata, e non è previsto alcun sostegno per chi soffre di sensibilità al glutine non celiaca una condizione ancora in fase di definizione scientifica, ma ormai riconosciuta a livello clinico. Chi ne soffre può manifestare sintomi simili a quelli della celiachia, senza però presentare gli stessi marcatori immunologici né danni intestinali evidenziabili. L’allergia invisibile, quando c’è la reazione sistemica al Nichel Un mercato da riformare Il mercato dei prodotti senza glutine ha raggiunto un valore di circa 250 milioni di euro l’anno, a cui si somma la quota dei consumatori che acquistano gluten free per scelta personale, e non per motivi di salute. Un giro d’affari importante, che ha attratto numerose aziende alimentari e ha reso il settore altamente competitivo. Alcune associazioni, come Assoceliaci, hanno sollevato perplessità sul funzionamento del sistema attuale. In particolare, si teme che il buono statale, pur nato per garantire un diritto, abbia finito per distorcere il mercato, incentivando prezzi elevati e scoraggiando una reale concorrenza sui costi. In pratica, secondo le associazioni, il buono mensile avrebbe alimentato un mercato multimilionario, dove il celiaco è visto più come consumatore da fidelizzare che come persona da tutelare. Anche i negozi specializzati, spesso più attenti alla qualità e alla varietà, faticano a sopravvivere, schiacciati dalla grande distribuzione. Tra le proposte in discussione: una revisione dell’elenco dei prodotti rimborsabili, un uso più flessibile del buono e, soprattutto, una riduzione dell’Iva sui prodotti senza glutine, ancora tassati al 10 per cento, a fronte del 4 per cento previsto per gli alimenti di base convenzionali. La sensibilità al glutine è (quasi) invisibile Un cambio di paradigma Oggi più che mai, è urgente ripensare le politiche a sostegno delle persone che vivono senza glutine. Non si tratta solo di rendere più accessibili gli alimenti, ma di tutelare la qualità della vita di chi è costretto a fare scelte alimentari obbligate, non volontarie. La dieta senza glutine non deve essere un lusso, né può diventare terreno fertile per speculazioni commerciali. È una questione di salute pubblica, e come tale va trattata: con rispetto, con attenzione e con strumenti adeguati. Perché mangiare in sicurezza è un diritto universale, non un privilegio a pagamento. [Missing Caption][Missing Credit]