Che negli ultimi anni siano apparsi parecchi libri sulla vecchiaia si spiega facilmente con la statistica. Stanno diventando vecchi (tra i settanta e oltre) i boomer; quindi, una classe di età in cui è lecito aspettarsi ci siano più scrittori che nelle generazioni precedenti e successive. Ma soprattutto ci sono più vecchi, molti più vecchi in giro.

E un libro sulla vecchiaia lo leggerà solo un vecchio, non certo un giovane e nemmeno, anzi soprattutto, un cinquantenne o una cinquantenne (perché dovrei leggerlo? Sono forse vecchio?). Per altro il genere è tutt’altro che nuovo, ed era discretamente praticato anche quando di vecchi (nel nostro senso anagrafico, ovviamente: nulla è variato di più nella storia che la percezione dell’età, e un tempo si poteva essere vecchi a cinquant’anni, una donna lo era di sicuro) ce n’erano in giro davvero pochini.

Il capostipite, come è ben noto, è il De senectute e Cicerone scrisse a sessantadue anni. Quello che interessa dunque non è il dato quantitativo. Piuttosto le differenze, marcate, tra i libri recenti sull’argomento e quelli scritti da chi diventava vecchio quaranta-cinquanta anni fa.

Un esempio eclatante, e che ha destato qualche reazione, è il modo in cui, nel suo Invecchiare con saggezza, una notissima filosofa americana, Martha Nussbaum, attaccava l’immagine della vecchiaia fornita da un’altra famosa filosofa di due generazioni precedenti, Simone De Beauvoir. Quest’ultima notava che si diventava vecchi quando si cominciava a percepire una distanza tra il modo in cui ci autoconsideriamo e l’immagine che ci rendiamo conto di avere.

È l’esperienza che, in modo brillantissimo, aveva riassunto Georg Simmel: vediamo casualmente la nostra immagine riflessa in un vetro, magari stando in piedi sull’autobus, e per un istante pensiamo: guarda quel vecchio, salvo capire un attimo dopo che quello siamo noi.

Nulla di tanto strano, dunque, ma per Nussbaum quella idea della differenza era lo stigma di una considerazione discriminante delle persone vecchie. Una discriminazione che in lingua anglosassone ha già il termine per designarla, ageism, coniato chiaramente sul modello di sexism o racism: un termine che da noi non ha ancora un corrispondente, e forse non lo avrà mai perché con buona pace della proposta di legge presentata da un parlamentare di FdI, che vuole multare l’uso di parole straniere, impareremo presto a usare il termine inglese.

In America, per esempio, è ageism costringere le persone ad andare in pensione ad una età prestabilita, quando vorrebbero decidere autonomamente di continuare a lavorare. Quest’ultima cosa è abbastanza impensabile in Europa (Macron ha rischiato grosso per molto meno), ma la sensibilità per la discriminazione anagrafica verso i vecchi, e insomma la denuncia dell’ageism, sta rapidamente avanzando anche da noi.

Age pride

Una presa di posizione contro l’ageism è, fin dal suo titolo, il libro di Lidia Ravera appena apparso da Einaudi: Age pride, come Gay pride, rivendicazione orgogliosa di quello che fino a poco tempo fa era un marchio da allontanare da sé, verdetto sociale emarginante. Sei vecchio, dunque in declino, fuori dalla produzione e dunque fuori dalla società.

Ravera, al contrario, vede nella vecchiaia, come conseguenza dei tanti cambiamenti quantitativi e qualitativi cui è andata incontro negli ultimi decenni, uno stadio nuovo della vita, una condizione che dobbiamo inventare e che in qualche misura possiamo plasmare «come creta morbida». Perfino il temine vecchio le sembra pregiudicato, anche nel cliché di saggezza che gli si è appiccicato addosso da millenni. Meglio chiamarli «grandi adulti», i vecchi, in modo da non segnare irrimediabilmente la cesura rispetto all’età precedente.

A Vittorino Andreoli, invece, il termine vecchio piace, gli sembra una qualifica da rivendicare, tanto che nella sua Lettera a un vecchio (Solferino 2023) lo reitera: Lettera a un vecchio da parte di un vecchio. Così impegnato com’è ad allontanare una visione negativa della vecchiaia, Andreoli, nella foga di ribaltare gli argomenti che di solito vengono usati per biasimarla, finisce per dipingerla in modo poco credibile. Va bene reagire contro una visione cupa e deprimente della vecchiaia, ma forse presentarla come l’età del «desiderio» e della «speranza» è un po’ troppo.

Andreoli, probabilmente, non ha letto il libro di Sandra Petrignani Vecchi (non a caso un libro di parecchi anni fa), nel quale per troppi anziani la perdita della speranza era vissuta in modo dilaniante, e molti di loro confessavano di consumarsi nell’attesa di nulla.

Ribaltare luoghi comuni

I vecchi pieni di speranze di Andreoli sono anche, ovviamente, belli, perché «ormai la bellezza non è più coniugata all’età»; e sono perfino generosi, perché la vecchiaia sarebbe l’età del «distacco dall’ossessione del danaro». Ora, va bene non acquietarsi dell’immagine del vecchio avaro consacrata da mille commedie e incarnata da Uncle Scrooge alias Zio Paperone; va bene denunciare i limiti di un’idea di bellezza costruita solo sui corpi giovani.

Ma dire, come fa Andreoli, che invecchiando si diventa migliori, o che donne e uomini ormai vivono l’invecchiamento allo stesso modo non risolve i problemi, si limita a nasconderli. Ravera ha osservazioni molto meno concilianti, e molto più vere, sia sulle differenze nel modo di percepire e rappresentarsi la vecchiaia di uomini e donne, sia sulla questione della generosità.

Nega recisamente che invecchiando si diventi più buoni, anche se respinge lo stereotipo dei vecchi che danno buoni consigli perché non possono più dare cattivi esempi (frase che tutti credono sia di De André, mentre è un moralista francese del Settecento, La Rochefoucauld).

Ribaltare luoghi comuni, evidentemente, non basta, e un po’ più di considerazione sociologica del problema forse aiuterebbe, ricordandoci che un numero troppo grande di anziani vive oggi in Italia sotto la soglia di povertà (basta guardare gli importi delle pensioni minime, che riguardano oltre due milioni di pensionati), o che la percentuale di persone che vivono sole è più alta tra gli ultrasessantacinquenni che nelle altre classi di età, quasi il 40% (e molte di loro sono donne).

Un solo modo

Un libro di Jean Améry (l’autore di Intellettuale ad Auschwitz), scritto, badate bene, a cinquantacinque anni e apparso nel 1968, più o meno in contemporanea al libro di De Beauvoir contro il quale polemizza Nussbaum, si intitolava Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare. I termini detrattori non erano solo nel titolo: era tutto un presentare l’ultima parte della vita sotto il segno del decadimento, della rinuncia, della delusione, della diminuzione e dell’affievolimento. È cosa buona e giusta che oggi si faccia tutto il possibile per non sottostare a questa immagine deprimente. Ma bisogna farlo con giudizio e anche con moderazione, altrimenti si ottiene non un modello, ma una caricatura.

La vecchiaia non è entusiasmante, ma l’unico modo di evitarla rimane, purtroppo, morire prima, il che lo è ancora meno. Non per nulla le cose più brutte sulla vecchiaia le hanno scritte poeti destinati a morire giovani. Come Dario Bellezza: «Fugace è la giovinezza/ un soffio la maturità/avanza tremenda vecchiaia/ e dura un’eternità» (Bellezza è morto a 52 anni).

Appunto: il dato saliente è che ormai la vecchiaia dura molto più di un tempo. Una volta si andava in pensione prima e si moriva, se andava bene dieci anni dopo; oggi si va in pensione più tardi e si muore, sempre se va bene, anche trent’anni dopo. In questo Andreoli ha ragione: la vera novità, alla fine, è che ormai la vita è divisa quasi perfettamente in tre periodi ciascuno di trent’anni circa, e che dunque vanno vissuti tenendosi lontani dal lamento e dalla rinuncia.

E tuttavia La sua Lettera a un vecchio si chiude con un capitolo sulla malattia, che pare sconfessare tutto il resto del suo scritto e sembra evocare, quella conclusione vagamente iettatoria ma purtroppo inconfutabile che una grande filosofo del Novecento, Carl Jaspers riassumeva nella frase: comunque vada, alla fine c’è il naufragio.

Meglio allora volare più basso. Accettare l’incompiuto come raccomanda Enzo Bianchi nel suo La vita e i giorni, cioè non arrovellarsi per quello che non siamo riusciti a fare, o ancor meglio, come raccomandava Colette, ritrovare anche nel declinare una forma di «chic supremo».
 

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