L’ultimo avversario gli è chiaro, lo chiama Father Time. LeBron James lo va combattendo in America allo stesso modo in cui Rafa Nadal lo contrasta con una racchetta in Spagna, destinati tutt’e due a perdere, come a suo tempo hanno perso Roger Federer e Valentino Rossi. Ma queste sono partite impossibili, non si vincono, puoi solo provare a farle durare. «Voglio continuare a sfidare ogni probabilità» si ostina a ripetere lui, il giocatore di pallacanestro che contende a Michael Jordan il titolo di più grande di sempre, con quattro anelli Nba vinti in tre città differenti (la sua Cleveland, Miami, Los Angeles), due ori olimpici con la nazionale Usa e la tentazione di fare un altro giro di giostra in estate a Parigi, per andare a prendersi il terzo.

La differenza con gli altri veterani in lotta contro il Tempo è che nessuno gli suggerisce di smettere. Non se ne vede il motivo. LeBron compie 39 anni a fine dicembre ma resta eccezionale. Non è più il giocatore che da solo trascina gli altri quattro compagni a vincere un campionato lungo otto mesi e un centinaio di partite, ma non è mai esistito uno della sua età così integro e così efficace.

Dopo i 37 anni di età, Jabbar segnava 22 punti di media, Jordan 21 e Kobe Bryant 17. LeBron sta andando alla media di 25 a partita. È il quarto nella classifica marcatori del campionato. Mercoledì scorso contro Phoenix è rimasto in campo per 40 minuti.

Era successo solo un’altra volta. Aveva 21 anni. Era il gennaio del 2006. Non solo mercoledì ha giocato 40 minuti, ma ha dominato, chiudendo con 31 punti (di cui 15 segnati nei minuti finali), undici assist, otto rimbalzi e cinque palloni recuperati.
Sono passati 36 anni da quando un giocatore dei Lakers aveva chiuso una partita con statistiche del genere. Era Magic Johnson. Ne sono passati 16 da quando una prestazione simile era toccata a lui.

Bisognerebbe saper descrivere la faccia che aveva due settimane fa, quando ha scoperto di essere più vecchio dell’allenatore degli avversari, gli Utah Jazz. Nella primavera scorsa diversi medici gli avevano suggerito di sottoporsi a un’operazione al piede infortunato e chiudere in anticipo la stagione.

Ha fatto di testa sua, segnando come sempre, passando come sempre, mettendosi a marcare gli avversari più pericolosi di Denver, Nikola Jokic e Jamal Murray. Uno degli insider più apprezzati della Nba, Shams Charania, fece sapere tempo dopo che LeBron aveva giocato gli ultimi mesi della stagione con un tendine del piede lacerato.
Da quando si è ritirato Carmelo Anthony, è rimasto l’unico superstite in Nba del campionato 2003. Ha fatto un cammino ventennale per arrivare nel febbraio scorso a diventare il primo marcatore della storia, partendo da un campetto di strada in Akron, Ohio, dove usavano come canestro una tanica del latte inchiodata al palo del telefono.

Il sogno

C’è un’ossessione più grande del padre Tempo che lo spinge a tenersi in forma, suo figlio Bronny, il maggiore: la voglia di giocare un giorno con lui.
Ha compiuto 19 anni nel mese di ottobre. Si è costruito un suo percorso credibile alla Sierra Canyon School di Los Angeles, prima di entrare alla University of Southern California. Un liceale dal potenziale altissimo, dai geni raffinati e con una pazzesca capacità d’attrazione, Le tv americane si erano spinte a comprare i diritti tv delle partite scolastiche.
Secondo alcuni siti specializzati: un candidato a essere scelto ai primi giri nell'estate 2024, per entrare in Nba a 21 anni di distanza da suo padre dopo una stagione da universitario.

Ma il progetto di di Bronny è stato drammaticamente interrotto da un arresto cardiaco in allenamento nel mese di luglio. La settimana scorsa ha avuto il via libera dei medici per tornare, il suo debutto è atteso domani contro Long Beach. LeBron aveva già avvertito i Lakers: «Se quella sera c’è una partita, non contate su di me, vado al palazzetto a vedere Bronny».

La Coppa

Dovrà prendere un volo da Las Vegas, in questo tramonto strano, il più strano che si sia mai visto nella storia dello sport a squadre. Ken Rosewall giocò la sua ultima finale a Wimbledon a quarant’anni. Era la sua ossessione.

Aveva vinto ovunque tranne là. Per coltivare la propria, LeBron si sta dando giorno dopo giorno piccoli obiettivi per aspettare Bronny. Quello degli ultimi giorni si chiama In-Season Tournament, una coppa che la Nba si è inventata quest’anno con un percorso parecchio bizzarro.
Tutto è cominciato con un articolo del New York Times di quattro anni fa. Mentre noi guardavamo con invidia il week-end del loro All-Star Game, loro guardavano noi: la Coppa Italia. Il giornale americano scrisse che bisognava creare un torneo uguale in America, nel cuore della stagione, con gare secche, chi vince va avanti, chi perde torna a casa.

Un torneo per rendere interessanti i mesi d’inverno, senza dover aspettare i play-off con turni di sette partite, con la possibilità di veder cadere le squadre-Golia davanti alle più piccole. Le diffidenze iniziali si sono sbriciolate strada facendo.
Las Vegas ospita la finale nella notte. Lakers-Indiana. LeBron ha definito la novità una genialata e si è battuto per portare i Lakers all’ultima partita.

Sa di far parte di una squadra che non ha speranze di vincere di nuovo l’anello. La sua spalla più celebrata, Anthony Davis, ha 29 anni e non gioca più di 62 partite in una stagione dal 2018. Non c'è nessun giovane fenomeno nei paraggi. Ma le tv vogliono vedere ancora lui. Lui e il suo magnifico tramonto.

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