Che cos’è la cura? Per Jamie Hakim, Andreas Chatzidakis, Jo Littler, Catherine Rottenberg e Lynne Segal la cura si è rivelata come un’urgenza, e perciò hanno lasciato che cambiasse le loro vite. Da accademici che erano, nel 2017 sono diventati pure un collettivo, il Care Collective. Da gruppo che scambiava letture e riflessioni, con l’arrivo della pandemia si sono fatti lotta. Hanno stilato The Care Manifesto; il Manifesto della cura arriva in Italia ora con Edizioni Alegre. «Siamo di provenienze diverse, Grecia, Australia, Usa, Regno Unito, ma tutti viviamo a Londra. Come accademici pure, proveniamo da discipline diverse, ma tutti ci occupiamo di crisi della cura, della incuria neoliberista».

Parla Andreas Chatzidakis, professore alla Royal Holloway dell’università di Londra. Si collega in video dalla capitale inglese assieme a Jamie Hakim, dell’università di East Anglia, che spiega: «La nostra stessa esperienza di collettivo è una pratica della cura: ci supportiamo sul piano emotivo e del confronto intellettuale». La giornalista e attivista Naomi Klein, estimatrice del gruppo, sottolinea proprio questo assunto di fondo: per il collettivo «la cura non è un bene, è una pratica, un valore fondamentale e un principio organizzativo». Per Chatzidakis la parola “cura” è «il grimaldello progressista» per cambiare il sistema. Per Hakim è «il concetto più radicale a disposizione oggi». Tutt’altro rispetto alla “resilienza”, lo zeitgeist, che va di moda perché «la capacità di adattarsi di fronte a uno shock nasconde un assunto: la crisi non deve portare il sistema a ripensarsi radicalmente, ma noi ad adattarci così che il sistema regga».

Rivoluzione copernicana

Prima della pandemia e del manifesto, era già in corso una riflessione teorica sulla crisi non solo sociale, economica, ambientale, ma dell’ordine sociale. Nel 2019 la filosofa femminista Nancy Fraser fa il suo j’accuse a un capitalismo che sfrutta le attività di riproduzione sociale (far nascere, educare, prendersi cura appunto), che le spolpa perché nessun profitto è possibile senza di esse, ma che non se ne assume i costi: «Le liquida come questioni private, di famiglia, e spinge per disinvestire nella spesa sociale». Lo stesso fa con l’ambiente: «Estrae materiali, energie, ma non spende per rigenerarlo». E con la politica: «Spolpa i beni pubblici, genera complessità, ma non sostiene forme di governance adeguate». Bisogna partire da qui, da queste contraddizioni, per capire perché durante la pandemia esplodono; e perché un collettivo raccoglie questa eredità teorica e parte dall’idea di cura per scardinare quel sistema.

Il Manifesto non parla solo di donne, né è scritto solo da donne - ma è un manifesto femminista.«Noi due siamo uomini ma femministi» dice Chatzidakis. «Il lavoro di cura è stato delegittimato e svalutato, è stato inteso come una attività improduttiva svolta in prevalenza dalle donne. Il nostro sistema è orientato alla produzione e relega la riproduzione sociale alla sfera domestica, familiare, così che la cura diventa un lavoro non riconosciuto, non retribuito o sottopagato, svolto dalle donne tra le mura di casa». Hakim: «Va disinnescato l’assunto che le donne siano deputate a farsi carico della cura. Quest’ultima va coltivata, condivisa e finanziata in maniera egualitaria. Serve una redistribuzione dei ruoli di cura». Il collettivo si rifa al concetto di universal caregiver teorizzato da Fraser e parla di cura “universale e promiscua”: «Se finora i lavori di cura sono stati svolti perlopiù da donne, povere, non bianche, a beneficio di pochi, bisogna invece consolidare una infrastruttura di cura a beneficio di tutti e che vada oltre i legami stretti, familiari; ognuno è interdipendente dagli altri».

Effetto Covid

La crisi da Covid-19 ora grava soprattutto sulle donne, precarie, sottopagate, le prime a perdere il lavoro, e sulle quali ricade di più il lavoro domestico; in una casa ormai fulcro di tutto. «La pandemia accentua le diseguaglianze preesistenti. Eravamo già in una crisi multipla della cura, che non fa che aggravarsi: da quarant’anni i governi accettano che la produzione di profitto sia il principio organizzatore», dice Chatzidakis. Hakim prosegue il ragionamento: «La pandemia ci ha sorpresi con i nostri sistemi di welfare infragiliti da tagli ed esternalizzazioni. Al contempo ha messo in luce quanto sia importante la cura. Sempre che vogliamo imparare la lezione. Nel Regno Unito è dai tempi di Margaret Thatcher che ci inducono a credere che la cura sia una faccenda individuale, stiamo passando sempre più dal welfare al self-care. Con Covid-19, è apparso chiaro a tutti che la nostra sanità pubblica, l’NHS, era ciò che poteva salvarci. Applaudivamo dai balconi medici e infermieri. Boris Johnson ha speso parole retoriche per loro, ma li lasciava senza protezioni adeguate. I conservatori continuano a esternalizzare e privatizzare i servizi pubblici, alla cerchia vicina al partito».

Guerra e competizione

A Roma, l’Assemblea della Magnolia, rete femminista che si è coalizzata durante la pandemia, ha prodotto un documento in cui dice: «Noi siamo la cura». Oppone al modello bellico (il virus come guerra da vincere) la richiesta di rafforzare la capacità di cura del paese: più risorse ed energie per il welfare e per l’ambiente. I governi useranno i fondi di ristoro in questa direzione? Hakim cita Gramsci: «Ho l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione». Mario Draghi nel primo discorso da premier al Senato ha messo in agenda la parità salariale, ha speso parole per l’occupazione femminile e ha detto che le donne devono poter competere alla pari. «Quel modello di femminismo, basato sull’affermazione personale, sul quale un membro del gruppo ha scritto un libro (Rottenberg è autrice de L’ascesa del femminismo neoliberista, ndr), fa il gioco del modello neoliberista» dice Chatzidakis. «La competizione è lotta per il potere, non per redistribuirlo. Alla competizione preferiamo la cooperazione. All’individualismo, la cura come questione collettiva». Hakim: «Una ragione per cui l’idea e la pratica di cura è in crisi è proprio il focus sulla competitività tipico di una visione neoliberista; da quel punto di vista, la questione è che le donne della classe media possano “sfondare il tetto di cristallo” e fare carriera. E tutte le altre?».

 

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