Chi si aspettava da Mario Draghi che facesse ammenda per il suo gabinetto composto da sole otto donne, circa la metà rispetto agli uomini (15) e per la maggior parte senza portafoglio, rimarrà delusa o deluso. Il premier, al quale spetta la responsabilità finale della scelta, ha omesso la questione.

Un’allusione al nodo delle ministre l’ha fatta: «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra i generi». Che può essere letto così: non chiedete a me di garantire un pari numero per principio, il punto è se le donne abbiano potuto ambire a questo incarico, all’interno del proprio partito. Nel caso specifico, il Pd. «Se le quote sono farisaiche Draghi lo lasci dire a noi donne», dice la sociologa e femminista Lella Palladino. «Non bastano le quote se le regole del gioco rimangono le stesse, se non viene scardinato un sistema di potere al maschile e se le donne conservano un ruolo ancillare. Ma senza protagonismo non può esserci cambiamento».

Parità di salario

Va detto che, nel suo primo discorso da premier, Draghi di parità di genere ha parlato. Ha fatto riferimento a un «riequilibrio del gap salariale» tra donne e uomini che a suo dire in Italia è tra i più negativi d’Europa. In apparenza è errato: se si considerano i dati Eurostat sul “gender pay gap”, l’Italia è tra i paesi messi meglio. Al terzo posto, con un risicato 4 per cento; la Germania è attorno al 20, in media le europee guadagnano il 14 per cento in meno dei maschi. In Italia la parità retributiva è garantita sin dalla Costituzione, fonte primaria del diritto; è nei contratti collettivi nazionali. C’è però un’attenuante e una ragione, nell’apparente errore del premier. I paesi che hanno un basso tasso di impiego femminile come il nostro - della popolazione economicamente attiva, lavora il 41 per cento di donne, in Germania il 55, in Svezia il 61, i dati sono della banca mondiale - hanno un divario che appare minore. L’economista Alessandra Casarico dice che «non esiste un modo univoco per misurare il differenziale di genere nelle retribuzioni: i dati europei del gender pay gap riferiscono una misura grezza, e cioè il salario medio orario delle donne e degli uomini, a prescindere dal numero di donne che lavorano e dalle loro mansioni». Già se si considera «il gap non più orario ma settimanale, e solo nel privato, il dato italiano sale al 17 per cento. C’è poi il grande tema della segregazione orizzontale: quando le donne si concentrano in alcuni settori, complessivamente mal pagati».

«Competitività» e cura

Draghi insiste, nel suo discorso, sul tema dell’occupazione femminile, sul fatto che le donne assieme ai giovani abbiano risentito in particolar modo della crisi da Covid-19. E insiste su un punto: la «competitività». Sul tema punta da anni anche la sua successora alla Bce, Christine Lagarde; quando guidava il Fondo monetario, parlò di «una cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». Non esiste istituzione economica internazionale che non insista sull’occupazione femminile. La contraddizione che la pandemia evidenzia con brutalità è però che il lavoro di cura e familiare continua a ricadere principalmente sulle donne, mentre manca un sistema di welfare pubblico che le supporti. Draghi accenna a «un sistema di welfare» che sostenga le donne «in carriera», ma è un accenno, e anzi nella parte sulla sanità parla di «casa come principale luogo di cura». Il che rischia di ricadere sulle donne. La parola “cura” è nel documento che l’”assemblea della magnolia”, rete di femministe, ha fatto avere a Draghi ma proprio per rivendicare un apprezzamento del lavoro di cura che ricade sulle donne e un rafforzamento «dei sistemi pubblici impoveriti dai tagli, dagli asili alla sanità al sostegno ai più fragili».

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