Non c’è estate che possa ritenersi pienamente vissuta senza un cold case, senza una scena del crimine non del tutto risolta. Ancora meglio sarebbe un caso di cronaca nera lontano nel tempo, accaduto tante estati fa, dimenticato da quasi tutti e, se proprio ci venisse data l’opportunità di scegliere, un caso di cronaca nera di cui allora si fosse occupato un raffinato scrittore, meglio se appartato e poco incline ai fatti mondani.

In tal senso c’è poco di meglio dell’omicidio di Vittoria Nicolotti raccontato da Guido Ceronetti: un mistero «nel terrain vague di un crimine erotico, chiodato di passione sadomasochistica, sfiorante il consenso della vittima», e non soltanto una faccenda di soldi, di furto, o di debiti come allora la polizia si convinse o fece finta di credere. Un caso di cronaca nera estiva da manuale, insomma.

L’omicidio

È la notte del 19 agosto 1930 quando da una palazzina signorile di un viale torinese di cui allora si diceva fosse “caro ai leggitori di giornali che non vogliono essere disturbati”, vengono urla di donna. Arrivano dal quinto piano, dall’appartamento di Vittoria. Si scorgono la finestra aperta per il caldo e le imposte appena accostate. Vittoria è la proprietaria di un negozio di abbigliamento infantile alla moda che si chiama la Falena, come la farfalla crepuscolare, quella che gira con volo irregolare intorno alla luce e che paga la sua attrazione con la morte: forse il nome sull’insegna si addice poco alla biancheria per bambini e ai vestitini alla marinara.

Quella mattina Vittoria non si presenta al negozio. Il ragazzo delle commissioni va dunque a chiamarla a casa, erano ancora rari i telefoni privati. La portinaia del palazzo sale i cinque piani di scale – soltanto nel 1948 avrebbero installato l’ascensore – e bussa. Nessuno le risponde, così scende al piano di sotto e, accompagnata adesso da quell’inquilina che le racconta delle urla notturne, ritorna al quinto a bussare di nuovo. Quando entrano l’unica porta che trovano chiusa è quella della stanza da letto.

Guido Ceronetti ha raccolto per sei anni le testimonianze, i documenti ufficiali e le lettere dell’assassina, affondando le mani nel «polipaio delle cronache» dei giornali, e quando ha creduto di averne bisogno per rischiarare l’indagine ha interrogato una medium e ha interpellato una sensitiva. Nel 2000 è uscito per Einaudi un suo libro, La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria che a rileggerlo ora si presenta come un perfetto canovaccio per una docuserie, morbosa e molesta secondo abitudine, interamente dedicata a un antico fatto di cronaca nera felicemente scordato dal pubblico e ora esumato per nuovi cupi splendori.

«La Nicolotti giaceva nel proprio letto supina ricoperta sino al collo da una coltre di lana», riporta il verbale. La polizia arrivò senza sirena con una delle Fiat 509 in dotazione. L’omicida ha arrotolato la camicia da notte in mezzo alle cosce della vittima, forse per gli sguardi sconosciuti che le si sarebbero posati addosso. Vittoria ha i capelli ramati ma biondi alla radice, quella mattina «in disordine e assai aggrovigliati», e risulta essere stata colpita e graffiata selvaggiamente.

Chi arrestano se non l’ultima persona ad averla incontrata? Ceronetti lo chiama «automatismo poliziesco». Vittoria non è sposata altrimenti verrebbe da tirare in ballo quella battuta di George Orwell secondo la quale quando qualcuno viene assassinato, in primo luogo si sospetta del coniuge, e ciò la direbbe lunga sulla considerazione che abbiamo del matrimonio. L’ultima persona con cui si è vista Vittoria si chiama Rosa Vercesi. Hanno trascorso la sera insieme, sono andate al cinema a vedere un film che non è piaciuto a nessuna delle due, e dopo neanche un’ora uscivano dalla sala. La polizia perquisisce l’alloggio, mentre Rosa si dichiara innocente e, prima che la portino in questura, esige di indossare il suo collo di volpe per pararsi dal freddo. È agosto: per gli assassini le temperature sono sempre gelide? «A l’an ciapàla! A l’an ciapàla! Mi, i tirería ‘l col côme a na galina!», commentano per strada, che vuol dire che l’hanno presa e che le tirerebbero volentieri il collo come a una gallina.

Il profilo di Rosa Vercesi

Le due ragazze si conoscono perché Rosa, nonostante avesse un’«aureola di sfrontata truffatrice», così dice Ceronetti, ha fatto per qualche tempo da intermediaria a un agente di Borsa. Prima di campare in quel modo, Rosa, nata negli ultimi anni dell’Ottocento, ha lavorato in una piccola azienda di radiatori, poi in una fabbrica di scatole, ha fatto la soffiatrice in una vetreria, la magazziniera e infine la procuratrice in un’agenzia di cambio. Da quest’ultimo ufficio venne cacciata con l’accusa di aver rubato dalla cassa. Si mette allora in proprio: riceve a un tavolino del Gran Caffè Ligure, proprio di fronte ai giardini della stazione, da cui si alza soltanto se i camerieri l’avvertono che è desiderata al telefono. C’è spesso un’orchestrina ad allietare i clienti del bar.

Vittoria aveva chiesto a Rosa di dormire con lei, quella notte d’agosto. Le avrebbe preparato il letto della madre con le lenzuola pulite. Le due ragazze salgono i cinque piani di scale mano nella mano. I vicini sentiranno i primi strilli all’una. Poi sarà il silenzio fino alle quatto e trenta. Forse nella notte sniffarono cocaina, forse Rosa ne aveva portata con sé dai suoi abituali viaggi a Parigi. La mattina, alle sei, Rosa uscirà da sola da quel palazzo. A nasconderle il caschetto scuro e la frangetta avrà il cappellino di paglia calcato sugli occhi, il foulard e il bavero alzato dell’impermeabile. Dopo averla strangolata, Rosa è rimasta un’ora e mezza nell’appartamento di Vittoria e adesso ne sta indossando i vestiti.

L’unica fotografia che esista di Vittoria sarebbe comparsa qualche anno dopo sul Manuale di Medicina Legale. L’aveva scattata la polizia prima che l’anatomopatologo eseguisse l’autopsia. A pagina 84 del Manuale è accompagnata dalla didascalia «Tentativo di soffocazione e strozzamento – Omicidio – Lesione sul viso e morsi al braccio» e a pagina 104 appare il dettaglio dell’avambraccio ferocemente morso.

In questura, davanti a soli uomini, è costretta a spogliarsi. Fotografano anche lei. Rosa Vercesi mostra un corpo graffiato furiosamente e un seno che sembra aver dormito tra le fauci di un lupo: le domandano cosa le sia successo, per spiegare un simile strazio. Rosa dà due versioni, nella prima dice di essere inciampata e caduta dalle scale con indosso una vestaglia «piena di spilli perché me la stavo riparando», e nella seconda fa presente al commissario che il suo amante aveva l’abitudine di graffiarla «nello spasimo della congiunzione». «Signor Pistamaglio, nel congiungersi con Rosa era solito maciullarla di graffi?», chiede dunque il commissario all’amante. Lui che dice? «Escludo in modo più assoluto di averla mai graffiata». Era una donna che sarebbe piaciuta a Pitigrilli, Rosa Vercesi. Uno dei suoi primi fidanzati in una lettera la definiva «giovane faina».

Seduta al banco degli imputati Rosa è elegante, non lo può forse essere un’ergastolana? Le scarpette di raso e i lunghi guanti che si sfilerà soltanto a udienza conclusa. Di quei guanti ne venderà a bizzeffe, soprattutto a San Valentino, il negozio vicino al Tribunale: Guanti alla Vercesi riporta il cartellino nella vetrina.

Un rammarico ce l’ha Ceronetti, uno su tutti: ah, se solo fosse andato a incontrare Paola Borboni, la grande attrice, che fu sempre presente alle udienze e sempre spiava l’accusata con un binocolo da teatro. All’epoca infatti gli attori di scuola naturalistica come lei «scrutavano le espressioni dei grandi imputati, assistevano alle autopsie, soggiornavano negli ospedali psichiatrici». Chissà cosa gli avrebbe potuto rivelare, si affligge Ceronetti, se solo lui si fosse preso la briga di chiederle un appuntamento.

La condanna

Il 31 dicembre la Corte delibera: colpevole, senza alcuna attenuante. «L’an daje l’erba», dicono i torinesi, che significa che le hanno dato l’ergastolo.

Robin Lane Fox, studioso di storia classica, ha contato nell’Antico Testamento una, e una soltanto, morte accidentale. Se era già così al principio dei tempi, perché stupirsi che anche quella notte successe per mano del prossimo?

Soltanto diciassette anni dopo, nel 1946, dal carcere di Trani, Rosa ammette un omicidio che fino ad allora aveva sempre negato per «la ripugnanza, la vergogna, l’orrore che provavo nel dovermi dichiarare autrice di un delitto che non avevo né premeditato né concepito».

Dopo che ricevette la grazia nel 1959 dal presidente della Repubblica Gronchi, non si è più saputo con certezza dove Rosa Vercesi fosse andata a vivere. Ceronetti, allora, consultò una medium, che gli disse che la donna era seppellita al cimitero di Vercelli e che no, ancora non si era reincarnata; poi consultò una sensitiva che gli disse che Rosa era stata sepolta nel convento di Canosa, tra le cui mura aveva vissuto in clausura gli ultimi anni della sua vita; infine, Ceronetti si affiderà a un pendolino radioestesico che ondeggiando gli dirà che quella notte d’agosto ci fu un rapporto erotico tra le due donne che culminò «nella frenesia di morte» e gli dirà, quello stesso pendolino di forma sferica a punta, che già in alcune fantasie Vittoria aveva immaginato di essere assassinata da Rosa, la ragazza di cui era innamorata.

Ora, riuscite a immaginarvelo un detective che, nell’ultimo episodio di una serie tv crime, oscillando lentamente un pendolino a favore di camera, rivela a sussurri il nome dell’assassino?

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