Il titolo dell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, a differenza di altri che sono posteriori alle rispettive opere, è un titolo originale. Con questa parola inizia infatti il testo. In greco – la lingua in cui è stato scritto, poco prima dell’anno 70 o alla fine del I secolo dell’era cristiana – il termine significa «rivelazione». Ma il sostantivo, insieme all’aggettivo «apocalittico», è usato di frequente nel linguaggio comune per indicare metaforicamente un disastro. E a causa del contenuto, che colpisce a prima vista chi lo legge, il libro è stato sempre interpretato in questo modo.

Betlemme, anno 394. Girolamo, uno dei maggiori biblisti cristiani dell’antichità, detta una lunga lettera in risposta a un amico – il ricco senatore Paolino, da poco convertito con la moglie e destinato a divenire vescovo di Nola – che l’aveva interpellato sulle Scritture. E l’asceta filologo ne passa in rassegna i singoli libri: «L’Apocalisse di Giovanni ha tanti misteri (sacramenta) quante parole. Ho detto poco rispetto al valore del libro. Ogni elogio è inferiore: in ogni parola si nascondono molteplici comprensioni (intelligentiae)».

La rivelazione

Il sintetico giudizio del più grande traduttore della Bibbia rende alla perfezione il fascino e i significati del testo giovanneo, molto letto e altrettanto commentato, ma in oriente entrato con qualche difficoltà nel canone cristiano, l’elenco dei libri considerati ispirati da Dio. Scritta in un greco scabro – in apparenza barbarico, in realtà attentamente costruito – l’Apocalisse si presenta come «rivelazione di Gesù Cristo, datagli da Dio per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere presto».

Tramiti della rivelazione sono un angelo e Giovanni, il profeta che nel giorno del Signore, la domenica, ascolta una voce «come di tromba», confinato nell’isola di Patmos. In poche decine di pagine, suddivise poi in ventidue capitoli, si succedono sette brevi lettere alle «sette chiese che sono nell’Asia», poi – per quasi tutto il libro – una serie di visioni di cui lo stesso autore sottolinea più volte il carattere simbolico. Scene terribili o meravigliose che si concludono con la visione della Gerusalemme nuova, città «che scende dal cielo», e con la venuta definitiva di Gesù.

Libro cristiano, l’Apocalisse giovannea è profondamente intriso di letteratura biblica ebraica, ispirato in particolare dalle visioni profetiche. «Più della metà delle sue reminiscenze – ha scritto André Chouraqui, intellettuale ebreo che ha tradotto l’intera Bibbia in un francese molto aderente agli originali – provengono da testi della Genesi, dell’Esodo, da Isaia, da Ezechiele, da Zaccaria, dai Salmi e da Daniele», il libro non a caso citato di più: è l’unico infatti che appartiene per intero al genere apocalittico, insieme al testo di Giovanni. A questi due libri biblici si aggiungono diversi apocrifi dello stesso tenore, ma sono più oscuri e immaginifici di Daniele e dell’Apocalisse.

Il lavoro di Bart D. Ehrman

Il genere letterario apocalittico, tipico di alcune parti della Scrittura ebraica, è definito in questo modo perché fondato appunto sulla rivelazione «in prima persona di visioni dalla forte natura simbolica». Si tratta dunque di «segreti celesti», che servono «a spiegare le realtà terrene», spesso politiche, consolando in tempi difficili. Così sintetizza Bart D. Ehrman in Armageddon (Carocci) che vorrebbe spiegare «cosa dice davvero la Bibbia sulla fine del mondo».

Biblista preparato e divulgatore di successo, l’autore ha da una decina d’anni un suo blog «in cui si discute di temi legati al Nuovo Testamento e al cristianesimo antico». Ma chi vuole intervenire deve pagare «un piccolo contributo e il denaro raccolto viene devoluto direttamente a organizzazioni benefiche che si occupano di povertà alimentare, abitativa ed educativa». I partecipanti al blog hanno versato la loro quota e letto una versione iniziale del libro, offrendo così allo studioso «spunti utili».

Più che in altri libri di Ehrman, traspare in quest’ultimo la storia personale dell’autore: «Da cristiano evangelico convinto com’ero, consideravo ispirata e vera ogni parola della Bibbia e abbracciavo con entusiasmo l’interpretazione letterale delle profezie dell’Apocalisse». Con un atteggiamento fondamentalista, diffuso e abbastanza comune negli Stati Uniti, che il biblista ha poi ripudiato e con il quale da tempo polemizza.

Ehrman ha senz’altro ragione, ma nella sua critica finisce per includere il testo dell’Apocalisse, ritenendo che Giovanni vi esprima un pensiero lontanissimo dagli insegnamenti evangelici: «Gesù avrebbe accettato la sua celebrazione della violenza, la sua richiesta di vendetta, la sua passione per la gloria e la sua speranza di dominare il mondo?».

L’abitudine a interpretare la Bibbia in senso rigorosamente letterale ha lasciato tracce indelebili nel critico americano, al punto da rendere insostenibile la sua lettura dell’Apocalisse, che resta letteralista e respinge le raffinate esegesi degli antichi autori cristiani: da Ireneo a Origene, fino all’imprescindibile Ticonio – a metà strada tra scismatici donatisti e cattolici (ma ammiratissimo da Agostino) e che Ehrman nemmeno nomina – e ai commenti dei primi secoli medievali, come quello di Beato di Liébana, trascritto su codici dalle coloratissime miniature.

Le interpretazioni insostenibili

Il letteralismo non si addice proprio al genere letterario apocalittico, originato com’è da contesti religiosi e politici drammatici: le persecuzioni antiebraiche per Daniele e gli apocrifi, oppure quelle di Nerone o di Domiziano per l’Apocalisse giovannea. Improbabili e sterili sono dunque le previsioni sul futuro o sui contorni del regno millenario di Cristo prima della fine dei tempi che è adombrato nel testo. Si è arrivati così a prevedere la fine del mondo con elucubrazioni cervellotiche e fallaci, come quelle di William Miller, che con complicati calcoli l’aveva fissata nel 1843 e ha dovuto poi via via farla slittare deludendo molti seguaci.

L’era atomica e gli avvistamenti di misteriosi oggetti volanti hanno diffuso a metà del secolo scorso altre fantasie sulla fine, in un’atmosfera che si ritrova nel geniale racconto di Ray Bradbury The Last Night of the World, accolta però quietamente da una giovane coppia che mette a letto le proprie bambine e si dà la buonanotte come in una sera qualsiasi. Tragiche sono state invece le derive di sette millenariste come nel 1978 la terribile strage di Jonestown in Guyana e nel 1993 quella di Waco nel Texas.

Ehrman offre dati interessanti e poco conosciuti sull’uso politico dell’Apocalisse, che s’incrocia con le origini del sionismo cristiano e con la politica statunitense nel Medio oriente. A metà del XIX secolo – ma con radici più antiche, sulla base di insostenibili interpretazioni letteraliste di testi biblici – era infatti nato un movimento sionista cristiano per promuovere la conversione degli ebrei e accelerare di conseguenza la fine del mondo.

Questa convinzione ha paradossalmente costituito un importante sostegno allo stato di Israele da parte degli evangelici americani integrati nella Moral Majority di Jerry Falwell, che contribuisce all’elezione di Reagan. E nel 1985 il rappresentante israeliano alle Nazioni unite, Netanyahu, riconosce che è stato «l’impatto del sionismo cristiano sugli statisti occidentali ad aiutare il moderno sionismo ebraico a realizzare la rinascita di Israele».

Tutto questo non ha evidentemente nulla a che fare con l’Apocalisse giovannea, analizzata con rigore e finezza dal gesuita Ugo Vanni, in due volumi (Cittadella Editrice) pubblicati pochi giorni dopo la sua morte nel 2018. Anche se il testo fa molto discutere già in età antica, quando biblisti come Dionigi di Alessandria ed Eusebio di Cesarea non erano convinti della tradizionale identificazione del visionario di Patmos con l’apostolo Giovanni, che per gli orientali è «il teologo», in quanto autore del più vertiginoso tra i quattro vangeli.

Se dunque almeno due sono gli autori, diversi sono però gli elementi comuni che avvicinano l’Apocalisse al quarto vangelo. Espressione di un «ambiente giovanneo» che si radica a Efeso e nella provincia romana dell’Asia (la regione occidentale dell’attuale Turchia), le due opere si collocano in un corpus coerente e fondamentale. Che a differenza dei tre vangeli sinottici si distingue per un’interpretazione attualizzante della fine del tempo, e dunque del futuro: già realizzata perché iniziata con l’incarnazione di Cristo. E proprio Cristo, la parola definitiva di Dio, è la rivelazione ultima dell’Apocalisse.

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