Alcuni anni fa, agli studenti della maturità era stato proposto di commentare una poesia di Giorgio Caproni intitolata Versicoli quasi ecologici. La poesia si apre con un appello a rispettare a natura, animata e non animata: «Non uccidete il mare, la libellula, il vento./ Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino/ Il galagone, il pino» e si chiude con questo pensiero: «Come potrebbe tornare a esser bella,/ scomparso l’uomo, la terra».

Caproni è un magnifico poeta, probabilmente il più grande poeta italiano del secondo Novecento. Ma forse in questi versi la poesia latita un poco, e molto latita la consequenzialità logica.

Scomparso l’uomo, la terra non sarebbe né bella né brutta, esisterebbe e basta. Si suppone la scomparsa dell’uomo, ma in realtà si continua a pensarlo presente e in atto di giudicare esteticamente la natura.

È il paradosso di tutta la deep ecology quando pensa di fare della bellezza naturale un argomento a difesa dell’ambiente, sostenendo al tempo stesso che quella bellezza è oggettiva, appartiene alla natura in quanto tale, e non ha bisogno dell’uomo per essere riconosciuta. Ma è ben difficile per noi accettare l’idea che la bellezza possa esistere indipendentemente da un soggetto che la avverte.

Almeno dal Settecento in poi, che la bellezza sia nell’occhio di chi guarda, in the eye of the beholder, come dicevano gli empiristi inglesi, è uno dei rari convincimenti che, in materia di bellezza, sono condivisi sia da chi filosofo non è, sia dai filosofi.

Anche dai filosofi che non sono empiristi. Kant, per esempio, sosteneva che animali e angeli potrebbero forse condividere altri aspetti dell’esperienza umana, ma l’esperienza della bellezza è riservata soltanto alla nostra specie.

L’Etna come amico di famiglia

Queste considerazioni mi sono tornate in mente leggendo il libro che uno dei nostri giovani filosofi più brillanti e ascoltati, Leonardo Caffo, ha dedicato all’Etna (La montagna di fuoco. Etna, la Madre, Ponte alle Grazie, 2022 ).

Sebbene infatti Caffo sappia benissimo quanto sia difficile (e non solo in estetica) non essere antropocentrici, non partire dalla visuale dell’essere umano (mettendo le mani avanti, segnala quasi subito la presenza nel discorso contemporaneo di “stereotipi falsamente non antropocentrici”), difficile convincersi che qui ci sia riuscito.

Ma che ci voglia provare, appare chiaro da parecchi indizi. Innanzi tutto, dalla sua diffidenza nei confronti del termine “paesaggio”, che evidentemente gli sembra intriso appunto di uno sguardo troppo umano.

Parlare di paesaggio viene considerato privo di giustificazioni concettuali, appunto perché il paesaggio sarebbe soltanto un “fenomeno ottico” attraverso il quale ritagliamo certi spazi “con criteri estetici che non hanno nessun correlato ontologico”, cioè che non hanno nessun rapporto “oggettivo” con la natura.

Ma non è solo questa diffidenza verso il paesaggio ad avvicinare Caffo alle posizioni ( e alle difficoltà logiche) della ecologia profonda. Coccia aspirerebbe a un’esperienza della natura che possa fare a meno dell’uomo, e arrampicarsi sull’Etna lo esalta perché gli dà il brivido di pensare che «l’umanità sia svanita nel nulla».

Ai nostri malcapitati studenti liceali si potrebbe forse proporre un utile esercizio di comparazione tra ciò che un altro vulcano, il Vesuvio, ha ispirato a Leopardi e quello che l’Etna ispira a Caffo.

Dato che Caffo non si perita di propinarci in questo libro alcune composizioni sue composizioni poetiche non proprio alate, il paragone dovrebbe lusingarlo e, anche ammettendo che il confronto, sul piano poetico, possa apparire lievemente sbilanciato, nulla dimostrerebbe meglio la profonda trasformazione cui è andata incontro la nostra immagine della natura.

Al Leopardi della Ginestra il vulcano ispirava il pensiero dell’immane potenza distruttrice della natura “dura nutrice”, e ne traeva argomento per esortare il genere umano alla concordia e alla solidarietà; per Caffo l’Etna ha l’aspetto un po’ lezioso della presenza familiare e amicale, che lo esorta a sentimenti di comunione panica con la natura e lo aiuta ad intessere “una storia d’amore tra la carne dell’uomo e la carne del mondo”, dimenticando il più possibile il resto dell’umanità.

Altro che Madre, il vulcano è il Padre

Ci si può legittimante chiedere se la strada migliore per superare il vituperato antropocentrismo sia questo rapporto personale con il vulcano, al quale Caffo scrive lettere chiamandolo Cara Etna. Infatti è chiaro fin da subito che qui, più che il vulcano, è in gioco un ripiegamento autobiografico.

Anche se Caffo chiama l’Etna la Madre, è evidente che per lui l’Etna è soprattutto il Padre, il vulcanologo Salvatore Caffo, oggi direttore della sezione vulcanologica del Parco dell’Etna, al quale infatti è demandato il compito, in coda al volume, di dare qualche informazione essenziale, in chiave strettamente chimico-geologica, sul vulcano, col solo risultato di rendere palese, al di là di ogni attestato di riconoscenza verso chi gli ha insegnato l’amore per il vulcano, la dissonanza tra l’approccio del figlio e quello del padre.

Non basta: la sicilitudine prende il sopravvento, e l’Etna, come nelle cartoline di una volta, diventa l’emblema della Sicilia tutta e della sua diversità, condita anche in questo caso di omaggi ai Siciliani illustri con i quali Caffo sente una profonda affinità, e pazienza se nel novero accanto al grande Franco Battiato ci dobbiamo sorbire (del resto il responsabile è proprio Battiato) il sedicente filosofo supponente e sgraziato che rispondeva al nome di Manlio Sgalambro.

La bellezza naturale

Ma questo, alla fine, è solo folclore e memoria personale. Quello che conta è che questa supposta nuova alleanza con la natura altro non è che il rapporto estetico con essa. Gratta gratta, dietro le premesse un po’ pompose c’è sempre lei, la bellezza naturale.

Caffo lo dice brutalmente: la natura è una poesia, e il linguaggio della natura, con buona pace di Galileo Galilei, non è la matematica, è la poesia.

Di qui, oltre ad alcuni corollari non proprio esaltanti, come la riscoperta dei Tarocchi, la polemica con la filosofia tradizionale, diciamo da Cartesio a Kant, rea di aver rinunciato ad ascoltare il linguaggio poetico della natura e di credere che solo l’umano parli davvero.

Ma se Caffo non avesse troppa fretta di darsi l’aria del liquidatore di una tradizione filosofica insigne potrebbe ricordarsi di quel passo in cui proprio Kant rinvia al »linguaggio cifrato attraverso cui la natura ci parla nelle sue forme belle».

 Il che conferma, una volta di più, che il nuovo di cui Caffo annuncia l’avvento è in realtà nient’altro che il  vecchio rapporto estetico con la bellezza naturale.

Solo che sostenendo il carattere oggettivo, indipendente dalla percezione dell’uomo, Caffo deve dimenticare che nulla è più variabile storicamente dell’idea di bellezza naturale, e deve tornare ad avvolgersi in tutte le contraddizioni della deep ecology applicata all’estetica, che segnalavamo sopra.

Per esempio, proprio come fa spesso l’ecologia profonda, per salvare l’idea della bellezza naturale indipendente dall’uomo, Caffo si affida  alla trascendenza, cioè fa di nuovo della bellezza naturale la testimonianza di un creatore benevolo.

Nell’Etna si esprimerebbe il “linguaggio di Dio”, e quindi sulla cima di un vulcano non possiamo che diventare tutti credenti, anzi siamo addirittura obbligati a credere. A credere, e di conseguenza a pregare, anzi a vivere una vita che «ringrazia e prega».

La festa del fuoco

Per pregare meglio, cioè con maggiore convinzione, Caffo si augura di poter avere il «privilegio di assistere a un’eruzione». E questo ci fa venire in mente un’altra storia.

All’inizio del Novecento, mentre il Vesuvio ebbe un episodio eruttivo che per fortuna non fece vittime. Angelo Conti, uno dei protagonisti dell’estetismo italiano di inizio secolo (d’Annunzio, nel Fuoco, sotto il nome di Daniele Glauro lo dipinge come il “fervido e sterile asceta della bellezza”) si entusiasmò e scrisse un pezzo in cui esaltava lo spettacolo e lo chiamava “la festa del fuoco”.

Il problema è che a Napoli soffocavano sotto la polvere vulcanica, schivavano i lapilli e tremavano al pensiero di conseguenze più gravi, e i napoletani non la presero bene. Se avessero avuto Conti per le mani probabilmente non l’avrebbe passata liscia.

Naturalmente ci guardiamo bene dall’augurare qualcosa di simile a Caffo. Innanzi tutto perché speriamo vivamente di non dovere assistere a eruzioni distruttive dell’Etna (anche se sappiamo, purtroppo, che prima o poi la lava tornerà a minacciare le case, come quando, qualche anno fa, faceva gridare Vittorio Sgarbi «forza Etna»); e poi perché l’estetismo di Caffo è ben diverso da quello idilliaco e slombato di Angelo Conti.

Però un po’ con Caffo ce l’abbiamo, è vero. Perché sa il cielo se proprio di questi tempi non avremmo bisogno di un rapporto equilibrato e corretto con la natura. Il guaio è che cercarlo a forza di ragionamenti slogicati non ci aiuterà granché.

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