Il 29 ottobre 1920, in piena guerra civile russa, il monaco Pavel Florenskij tenne per l’Accademia russa di Storia della cultura materiale del Commissariato del popolo per l’Istruzione, uno dei ministeri del giovane governo bolscevico, una conferenza intitolata La prospettiva rovesciata (Adelphi, 2020), in una singolare manifestazione di convergenza tra religione ortodossa, matematica moderna e politica rivoluzionaria.

Florenskij era nato nel 1882 nell’odierno Azerbaigian, sua madre proveniva dall’Armenia, e lui aveva fatto le superiori in Georgia: le sue origini stavano dunque nel Caucaso, all’epoca una remota provincia russa nella quale pro−speravano i dissidenti politici e religiosi, presi fra l’incudine dell’impero zarista e il martello della chiesa ortodossa. Il giovane ricevette un’educazione atea: solo dopo la maturità ebbe una crisi religiosa, e poco dopo si trasferì a Mosca nel 1900 per iscriversi alla facoltà di Matematica.

Si laureò quattro anni dopo con una tesi nell’ambito della teoria delle funzioni discontinue, che all’epoca era una novità. Il relatore della tesi era il matematico Nikolai Bugaev, che dal canto suo aveva già cercato di usare l’idea di discontinuità per spiegare il libero arbitrio, in una sorta di riproposizione moderna dell’antico clinamen di Epicuro e Lucrezio.

Florenskij fu molto influenzato non solo dall’insegnamento di Bugaev, ma anche dalla compagnia di suo figlio Andrej, che all’epoca studiava pure lui matematica, ma in seguito diventerà famoso come poeta e scrittore, con lo pseudonimo di Bielyi: addirittura, in seguito Nabokov dirà che il suo romanzo Pietroburgo è uno dei quattro grandi capolavori della prosa del Novecento, insieme a La ricerca del tempo perduto di Proust, La metamorfosi di Kafka e l’Ulisse di Joyce.

Salti mortali filosofici

Quanto a Florenskij, pure lui deviò presto dalla retta via. Dopo la laurea in Matematica nel 1904 ne prese infatti un’altra in Teologia nel 1908, diventando immediatamente professore all’Accademia di teologia di Mosca, e venendo ordinato monaco nel 1911.

Da allora si dedicò a fare salti mortali filosofici per cercare di adattare l’anacronistica ortodossia russa ai tempi moderni, esattamente come fanno i “progressisti” nostrani con l’altrettanto anacronistico cattolicesimo romano. D’altronde, le due religioni non sono che due facce di un’unica medaglia, sottilissimamente separate da una millenaria disputa riguardante l’effimero e bizzarro problema se lo Spirito Santo proceda soltanto dal Padre, come si crede al di là dell’Adriatico, o anche dal Figlio, come si crede invece al di qua.

Difficilmente argomenti di questo genere potevano interessare i bolscevichi, che provenivano da ben altri percorsi culturali, e meno che mai andavano d’accordo con la Rivoluzione, che aveva ben altre priorità politiche. Ma agli inizi il monaco Florenskij riuscì in qualche modo a coniugare il diavolo della bandiera rossa con l’acquasanta della tonaca nera, che indossava sempre: anche nelle riunioni politiche, arrivando un giorno ad attirare le attenzioni e sollevare le perplessità di Trotzkij in persona.

Non cambiò d’abito neppure per la conferenza su La prospettiva rovesciata, in cui individuava due modi antitetici di rappresentare il mondo esterno: quello moderno europeo, della prospettiva diretta, e quello medievale russo, della prospettiva inversa o rovesciata, appunto. Secondo il monaco, che ovviamente cercava di portar acqua al proprio convento, le icone orientali rappresentano un oggetto nella sua vera essenza, mentre i quadri occidentali si limitano a mostrarne le ingannevoli apparenze, in una sorta di riproposizione in chiave artistica dell’opposizione kantiana tra noumeno e fenomeno.

Florenskij notava correttamente che la prospettiva diretta non è affatto un’invenzione moderna, anche se noi tendiamo erroneamente ad attribuirne la scoperta a Brunelleschi, all’inizio del Quattrocento a Firenze. La tecnica era invece ben nota nell’antichità, e nel suo trattato Sull’architettura Vitruvio la faceva risalire addirittura ad Anassagora e Democrito, che pare l’abbiano sviluppata per produrre le elaborate scenografie richieste dalle opere teatrali di Eschilo e Sofocle.

(Un ritratto dei filosofi russi Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov, di Michail Vasilevic Nesterov, del 1917)

Le trappole dell’occhio

Naturalmente, è vero che le scenografie mirano a ingannare, alla stregua dei trucchi cinematografici, e provocano illusioni ottiche che danno una falsa impressione di realtà: non a caso, a volte si parla di trompe l’oeil, per evidenziare la trappola in cui cade l’occhio. Ma questo non significa, come credeva Florenskij, che allora qualunque rappresentazione prospettica sia ingannevole, e non fornisca invece una veritiera immagine della realtà. E meno che mai significa che i pittori antichi o medievali scegliessero coscientemente la prospettiva rovesciata, invece di quella diretta, per guardare le cose dal punto di vista oggettivo di Dio, invece che da quello soggettivo dell’uomo.

Paradossalmente, come matematico Florenskij avrebbe avuto gli strumenti tecnici necessari e sufficienti per individuare precisamente la vera differenza fra la prospettiva rinascimentale e quella bizantina, ma preferì mantenere il proprio discorso al livello delle fumoserie filosofiche e teologiche.

Oggi noi possiamo però semplicemente dire che la prospettiva rinascimentale fa convergere le linee parallele di profondità in un unico punto all’infinito situato al di là del quadro, mentre la prospettiva bizantina le fa convergere in un unico punto al finito situato al di qua: chi guarda le icone ha dunque l’impressione che le linee di profondità divergano, invece di convergere.

In realtà la tecnica è esattamente la stessa in entrambi i casi, solo che il risultato viene visto da due parti opposte della tela: se si proietta un oggetto su uno schermo, l’immagine appare in prospettiva rinascimentale se si osserva lo schermo dalla stessa parte dell’oggetto, e in prospettiva bizantina se lo si osserva in trasparenza dalla parte opposta. Nel primo caso, chi guarda si percepisce come un osservatore attivo, perché la prospettiva diretta non fa altro che riprodurre il processo visivo in maniera fotografica. Ma nel secondo caso, chi guarda ha l’illusione di essere un osservato passivo guardato da qualcun altro, che un religioso può ben illudersi essere Dio stesso.

Da qui l’utilizzo di questa suggestiva tecnica nelle icone ortodosse, come quelle esposte nella straordinaria collezione della Galleria Tretjakov a Mosca: prima fra tutte, La trinità del grande maestro quattrocentesco Andrej Rublëv, la cui vita è stata illustrata da Andrej Tarkovskij in un omonimo film del 1966. Il che va benissimo, purché si capisca che il legame tra la prospettiva bizantina con la religione non ha nulla di oggettivo, ed è soltanto un’interpretazione soggettiva in cui indulge l’osservatore religioso.

Le assonometrie

Lo dimostra il fatto che un’analoga interpretazione religiosa si può dare per le assonometrie, che sono un tipo semplificato di prospettiva in cui le linee parallele non convergono, né divergono, ma rimangono parallele. Proprio per questa sua semplicità, l’assonometria era già stata usata in molte opere egizie, greche e romane, che appaiono anch’esse ieratiche e divine: il motivo, in questo caso, è che l’assonometria corrisponde alla visione da un punto di vista situato all’infinito, e produce anch’essa l’impressione di qualcosa di artificiale e non umano, o sovrumano.

Ironicamente, negli stessi anni in cui le retroguardie religiose proponevano con Florenskij un superamento della prospettiva rinascimentale mediante un ritorno alla prospettiva medievale delle icone, avanguardie artistiche come il suprematismo e il costruttivismo russi proponevano invece un ritorno ancora più radicale all’assonometria dell’arte antica. Lo faceva, in particolare, El Lissitzkij nello scritto Arte e geometria del 1925, che in un certo senso costituiva la risposta laica a La prospettiva rovesciata di Florenskij.

Un’altra connessione tra matematica e religione che il monaco non seppe sfruttare a fondo ha a che vedere con un’eresia della Chiesa ortodossa chiamata “venerazione del nome”, il più noto centro della quale fu il monastero russo-ortodosso di San Panteleimon sul Monte Athos, in Grecia: per sgominare l’eresia che vi si annidava fu necessario un intervento armato della Marina imperiale russa, che nel 1913 assaltò il monastero e deportò un migliaio di monaci. L’eresia attecchì comunque in Russia, soprattutto fra coloro che erano allo stesso tempo insoddisfatti dell’ortodossia religiosa e del potere politico: zarista prima, e bolscevico poi.

La teoria consisteva nell’identificazione di Dio con il suo nome, e la pratica passava attraverso la ripetizione ossessiva del nome divino fino al raggiungimento di uno stato mistico, che poteva culminare in un orgasmo fisiologico. Nel settembre 1917 fu convocato a Mosca un Concilio della chiesa ortodossa per decidere le sorti dell’eresia, ma la Rivoluzione d’ottobre lo rese obsoleto. Florenskij fu uno dei seguaci di questa eresia, e la divulgò negli scritti su Il valore magico della parola (Medusa, 2001), composti fra il 1920 e il 1922. Un altro fu il matematico Dmitrij Egorov, che ebbe fra i suoi allievi e correligionari Nikolaj Luzin.

Quest’ultimo fu il massimo esponente della grande scuola russa di teoria descrittiva degli insiemi, il cui nominalismo era appunto ispirato all’eresia, e si salvò dalle purghe degli anni ’30. A Florenskij invece, anche a causa dell’azzardata esibizione pubblica della propria tonaca, andò peggio: venne arrestato nel 1928, condannato al gulag nel 1933 per “propaganda antisovietica e attività controrivoluzionaria”, e fucilato l’8 dicembre 1937.

Solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica i suoi scritti furono riscoperti e diffusi, anche se la sua fede religiosa e la sua tragica fine tendono a far sottovalutare il loro sicuro anacronismo filosofico e teologico, e sopravvalutare il loro dubbio valore scientifico e matematico.

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