Prima i vicini di casa e gli indignados di Twitter se la presero con i runner, poi con i ragazzi della movida e la folla dei Navigli, adesso è il turno dei tossici dei cenoni che, in crisi d’astinenza da assembramento familiare, sfidano i Dpcm per scivolare nottetempo negli appartamenti altrui a sbicchierare: e vengono prontamente denunciati dagli occhiuti dirimpettai. Festeggia in silenzio, il nemico ti ascolta. L’avessero fatto anche i “sette non congiunti” beccati per il cenone di Natale di cui hanno raccontato le cronache di Torino: invece hanno provato a sfuggire ai carabinieri nascondendo gli invitati in eccesso nella camera da letto. Peccato che la stanza avesse la porta a vetri…

Sorveglianza “orwelliana”

Al di là di certi episodi più o meno tragicomici, però, se c’è un concetto che ha davvero definito quest’anno pandemico è quello di sorveglianza, immancabilmente accompagnato dall’aggettivo “orwelliana”. Non che Gorge Orwell necessitasse di una riscoperta: già all’inizio della presidenza Trump, quando il suo ufficio stampa parlava di “alternative facts” per giustificare dichiarazioni palesemente false, 1984 era tornato in testa alle classifiche dei libri più venduti negli Usa. La più famosa delle distopie appariva di colpo come un romanzo realistico, di più: un vero e proprio manuale di istruzioni del presente.

Eppure, o proprio per questo, orwelliano è diventato col tempo un termine ombrello capace di indicare tutto e il contrario di tutto, finendo in bocca tanto ai libertari quanto ai teorici del sospetto, complottardi, No-Vax e sciechimichisti per i quali Immuni, il cashback, le zone rosse e i vaccini sono tutti diabolici dispositivi del Grande Fratello statale (che vita interessante devono fare nelle loro teste, rispetto a noi noiosi che non vediamo complotti ovunque…).

Del resto 1984 è uno dei libri che più hanno influenzato il discorso pubblico degli ultimi settant’anni, il libro che tutti citano anche senza averlo letto, da cui provengono decine di immagini, termini, concetti che leggiamo sui giornali tutti i giorni: ministero della verità, psicopolizia, neolingua, due minuti d’odio (il Twitter di cui sopra), bispensiero, e ovviamente lui, Grande Fratello.

Quale miglior occasione per leggere o rileggere Orwell (1984 è uno di quei libri che si leggono da adolescenti, magari per qualche obbligo scolastico, e poi si crede di aver capito per il resto della vita) che questa che arriva: le opere di Orwell entrano dal 2021 nel pubblico dominio, per cui da gennaio ogni editore è libero di proporre la sua traduzione, essendo ormai decaduta l’esclusiva che lo riservava a Mondadori.

Di 1984 usciranno così le nuove versioni di valenti traduttori come Marco Rossari, Vincenzo Latronico, Tommaso Pincio, Enrico Terrinoni, Franca Cavagnoli. Una avrà anche la prefazione di Walter Veltroni. Sarà interessante confrontare le diverse scelte fatte dai traduttori per rendere una lingua tanto piena di invenzioni e sottigliezze.

Milan Kundera non amava 1984, lo bollava come “un saggio di politica travestito da romanzo”, così come Harold Bloom che lo reputava semplicemente brutto: invece è un romanzo psicologico (e decisamente erotico) intenso, non privo di sfumature, profondo, visionario. Se non lo vediamo più così è solo perché “l’abitudine diventa istinto”, proprio come scrive Orwell a proposito dell’essere osservati.

Quello che è certo è che è un romanzo tetro, opprimente: «1984 non sarebbe così cupo se io non fossi così malato» disse Orwell nell’inverno del 1948, mentre stava lavorando al libro che di fatto lo uccise.

L’anno prima si era trasferito nelle Ebridi, sull’isola di Jura, per trovare conforto dalla turbercolosi che lo stava martoriando e isolamento per scrivere. In effetti sull’isola, all’epoca, abitavano meno di trecento persone ma l’ospedale più vicino era a un taxi, due navi, un bus e un treno di distanza. Se stava bene scriveva in soggiorno, più spesso direttamente a letto, la camera immersa nel fumo delle sigarette.

Giunto alla fine chiese al suo editore qualcuno che ribattesse a macchina la stesura definitiva, le sue bozze erano troppo piene di correzioni e ripensamenti: ma non c’era tempo per far venire qualcuno così lo fece lui stesso. A un ritmo di 4000 parole al giorno, sette giorni su sette, seduto sul letto, tra attacchi di febbre e scariche di tosse sanguinolenta, Orwell ribatté tutto 1984: finito, scese al piano di sotto, scolò l’ultima bottiglia di vino in casa e poi tornò a letto, distrutto.

Cosa resta del 1984

Il gennaio del 1949 acconsentì a farsi ricoverare: morirà un anno dopo, il 21 gennaio del 1950. Fortunatamente il libro non richiedeva più l’intervento del suo autore: Orwell chiese solo un blurb, un pezzo promozionale, di Bertrand Russell e l’ottenne. L’editore americano ebbe l’idea assurda (ma editorialmente geniale) di chiederne uno a Edgar J. Hoover, il famigerato direttore dell’Fbi che aveva elevato la sorveglianza e il ricatto a regola poliziesca, ma questi rifiutò. 1984 uscì l’8 giugno del 1949 e fu un successo immediato che non ha conosciuto pause fino a oggi.

Ancora nel 2019 sono usciti due libri di grande successo dedicati al romanzo, On Nineteen Eighty-Four: A Biography di D. J. Taylor e The Ministry of Truth: A Biography of George Orwell's 1984 di Dorian Lynskey. Purtroppo non è più facilmente reperibile la traduzione italiana de La vittoria di Orwell in cui Christopher Hitchens (il più autentico e sincero dei suoi eredi) ripercorreva la vita e la parabola intellettuale di Orwell.

Il problema è che la ricchezza e la potenza del libro ne sono anche il punto debole: un romanzo che è stato di volta in volta bollato (o lodato) come anarchico, cattolico, femminista, misogino, libertario, conservatore e socialista, è stato così tanto tirato per la giacchetta da strapparla, la giacchetta.

E arriviamo così all’accoppiata di prima: “sorveglianza orwelliana” che senso ha nell’epoca dei Dpcm? Nel 1984 andava in onda uno degli spot pubblicitari più famosi e importanti di tutti i tempi. Viene trasmesso durante il Super Bowl di quell’anno (e mai più mandato in onda), diretto da Riddley Scott (che, fresco di Blade Runner, di futuri distopici se ne intendeva), dura un minuto: una fila di uomini, tutti uguali, calvi, vestiti di grigio, camminano verso una grande stanza.

Sembrano usciti dalla riduzione cinematografica di 1984 con John Hurt. Da un megaschermo, il Grande Fratello sta tenendo un qualche comizio. A un certo punto irrompe una donna. Un’atleta bionda. Bella, vestita di colori sgargianti. Corre. Ha in mano un martello. Dei poliziotti corazzati la rincorrono ma non riescono a impedire che la donna lanci il martello verso lo schermo. Lo schermo è distrutto, il Grande Fratello è abbattuto. Non siamo nel 1984 di Orwell: è la pubblicità del Macintosh, il primo computer a interfaccia grafica di Apple.

Il messaggio era: scordatevi il controllo del potere politico, il conformismo spersonalizzante del Grande Fratello, scordatevi Orwell, siamo arrivati noi a mettervi in mano il potere della vostra libertà, creatività, individualità.

Bene. Adesso prendete il vostro iPhone della Apple, andate in impostazioni, privacy, localizzazione, scendete fino in fondo alla voce servizi di sistema e vedrete comparire la mappa dei vostri spostamenti degli ultimi mesi. Va detto che l’opzione può essere disabilitata e Apple, tra le big tech, è quella che meno basa il proprio business sul tracciamento degli utenti, ma di certo le cose sono andate molto diversamente da come lo spot le prospettava.

Il governo della cittadinanza

La sorveglianza di cui parlava Orwell è qualcosa di molto diverso dalla sorveglianza in cui siamo immersi noi oggi. In 1984 c’è il controllo di pochi verso tanti, del Partito, del potere politico, che scruta, controlla e disciplina la massa di individui inermi: l’occhio del Grande Fratello è come un tallone di ferro che schiaccia le libertà individuali.

Per quanto il controllo dei poteri statuali sia ancora importante e forte – vedi il caso Snowden e la rivelazione di come l’Nsa controllasse cittadini americani e no, anche non coinvolti in casi giudiziari – oggi la sorveglianza è diventata un’altra cosa.

Innanzitutto perché il potere – che è prima di tutto potere di categorizzare gli individui – non coincide più con la politica, ma è in mano anche ad altri soggetti, economici e tecnologici. Ma soprattutto perché la sorveglianza è la cultura in cui siamo immersi: siamo passati dal Big Brother ai Big Data. Ne scrive con grande efficacia David Lyon nel prezioso La cultura della sorveglianza (Luiss University Press) di come oggi la sorveglianza e la rinuncia alla privacy siano date per scontate, un ordine naturale.

Nel momento in cui la maggior parte delle nostre interazioni avviene online – e con il Covid sempre di più – la vita e l’esperienza viene trasformata in numero, in dato, e quindi quasi per definizione sorvegliabile, catalogabile. Il social sorting è la divisione della società in categorie, fasce di reddito, classe, etnia: un “governo” della cittadinanza reso ancora più facile e potente dal digitale. E moltiplicatore di diseguaglianze.

Non solo: quella di oggi non è più la sorveglianza che proviene dall’esterno, non è lo sguardo del “grande Altro”, dello Stato, ma è introiettata nella nostra quotidianità: siamo noi i primi a sorvegliare gli altri e a desiderare di essere sorvegliati, a osservare e a metterci in mostra, disponibili allo sguardo “sorvegliante” altrui. Siamo i primi a spiare, desiderare, denunciare, additare.

Chissà cosa ne avrebbero pensato gli aguzzini di Winston Smith. Forse avrebbero detto che “sorveglianza è libertà”…

 

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