Il futuro l’ho visitato nel 1993. In quegli anni, almeno in Italia, l’accesso a internet era in gran parte limitato alle università, ai centri di ricerca, a qualche grande azienda: il privato cittadino, l’appassionato che avesse voluto entrare nella “rete delle reti”, come si diceva allora, doveva invece collegare il proprio modem a una Bbs (un sistema che permetteva di accedere a un altro computer e condividere risorse, dati, messaggi da una rete), magari al costo di un’interurbana se il computer che ospitava la Bbs era in un’altra città, e da lì veniva poi dirottato nel grande mare aperto di internet e ne poteva fruire i vari servizi: Ftp, Gopher, Archie, Telnet... Nomi e sigle che probabilmente non vi diranno nulla: i protocolli che ancora esistono sono stati oscurati e inglobati dall’http del World Wide Web.

Ma il web, la possibilità di navigare in rete attraverso un’interfaccia grafica, era stato inventato al Cern di Ginevra solo un paio di anni prima da Tim Berners-Lee: nel 1993 erano accesi poco più di una cinquantina di server WWW, Mosaic, il primo browser, era stato appena lanciato e Netscape sarebbe uscito solo l’anno dopo. Ci si muoveva tra schermate di testo, inserendo con la tastiera dei comandi tutt’altro che intuitivi. Insomma, era un’internet molto diversa.

Fatto sta che dopo essere riuscito, non senza qualche fatica, a “entrare in internet”, mi collego un po’ a caso a un server dell’università di Stanford e, navigando nell’albero delle directory, trovo una cartella con dentro dei file di testo. Ne scarico uno. Era un racconto di William Gibson, Burning Chrome (La notte che bruciammo Chrome), che qualcuno si era preso la briga di scannerizzare e piratare. Quel racconto è la prima cosa che ho scaricato da internet nella mia vita, il primo bottino che ho riportato a casa dai miei viaggi da fermo in giro per il mondo.

Quanti altri file abbiamo scaricato nella vita senza nemmeno farci caso? Come può un’azione così insignificante avere nella galleria dei ricordi uno spazio paragonabile a eventi ben più decisivi? Un gesto, oltretutto, avvenuto in internet, in uno spazio virtuale! D’accordo, ero un adolescente, e a quell’età tutto, soprattutto una cosa fatta per la prima volta, ci appare circonfusa dell’aura fluorescente della trasgressione. Eppure penso che a spingermi a impegnarmi così tanto con doppini telefonici e linee di comando per andare in rete abbia contribuito il fatto che qualche tempo prima avessi letto Neuromante di William Gibson e a seguire, a mano a mano che venivano pubblicati in Italia, gli altri grandi capolavori del cyberpunk, i più belli e i più importanti li trovate raccolti proprio in Cyberpunk. Antologia Assoluta (Mondadori).

«Il futuro è già arrivato. Solamente non è ancora stato uniformemente distribuito» ha detto una volta William Gibson. Lui e gli altri autori cyberpunk non hanno previsto il futuro (non c’è idea più sbagliata di quella che vede il valore della letteratura fantascientifica in una sua ipotetica capacità predittiva, quasi che i suoi autori fossero dei profeti o dei futurologi). No, Gibson e soci hanno semplicemente prestato attenzione al loro presente, hanno fatto quello che fanno i bravi scrittori: hanno guardato attentamente. Hanno concentrato lo sguardo, magari su un particolare, e hanno “sentito” il futuro che era già lì, il futuro che era già presente e che col tempo sarebbe diventato anche il nostro quotidiano.

È noto questo episodio, Gibson lo racconta spesso: tra le varie suggestioni che lo hanno ispirato c’è l’aver osservato un ragazzino che giocava a un videogioco arcade, concentrato, fuso con la macchina, impenetrabile dall’esterno mentre nella sua testa esplodevano le immagini, i suoni, le scene generate dal gioco. Essere assenti, altrove, anche quando si è fisicamente presenti e immobili, muoversi in un mondo che è dentro lo schermo e dentro la nostra testa, un rapporto intimo con la tecnologia al limite dell’erotico: il cyberspazio e internet erano già lì, in quel ragazzino intento a sparare a degli alieni pixelati.

Il futuro è presente

Oggi quel futuro di cui gli scrittori cyberpunk ricevettero i primi “invii”, in forma di immagini visionarie e storie rutilanti, è stato distribuito a tutti noi. Ci suona al citofono. Mentre scrivo queste righe, Elon Musk, il visionario e controverso industriale e inventore che sembra la versione reale di Tony Stark, ha annunciato che una sua compagnia, la Neuralink, ha trovato il modo per collegare un’intelligenza artificiale a un cervello umano; qualche mese prima la sua compagnia aerospaziale, la Space X, ha inviato un equipaggio umano sulla stazione spaziale internazionale: è la prima volta che accade grazie a un razzo di una compagnia privata; l’uomo più ricco del pianeta, Jeff Bezos, che ha da poco annunciato la successione alla guida di Amazon, sta diventando ancora più ricco grazie al commercio elettronico durante il lockdown per la pandemia da Covid-19 (nelle undici settimane di blocco ha guadagnato 32 miliardi di dollari; potrebbe diventare il primo trilionario della storia): è così ricco che ha pensato bene di investire anche lui nella corsa spaziale con una sua società, la Blue Origin; a fine luglio i capi di Facebook, Google, Amazon e Apple sono stati convocati per un’audizione al Congresso degli Stati Uniti per render conto della loro posizione dominante sul mercato: del resto hanno fatturati superiori al Pil di intere nazioni; hacker russi e cinesi minacciano il regolare svolgimento delle elezioni presidenziali americane a novembre (interferenze esterne del resto sono già state dimostrate per le precedenti elezioni del 2016 o per il referendum sulla Brexit del 2017); la pandemia globale da Covid-19 sta causando centinaia di migliaia di morti e mettendo in ginocchio le economie di molti paesi; le strade americane sono ancora attraversate dalle proteste e dagli scontri successivi all’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia; la California è devastata dalla più grande e distruttiva concentrazione di incendi della storia. Ah, certo, il cambiamento climatico sta rendendo l’estinzione della vita umana un’idea da prendere in considerazione. Mentre stavo scrivendo la frase precedente ho visto, condiviso da chissà chi su Twitter, un video deepfake (una tecnologia che permette di falsificare i video grazie all’aiuto dell’intelligenza artificiale) in cui Hitler e Stalin cantano Video Killed the Radio Star!

Sì, decisamente il futuro è stato distribuito a tutti, ma purtroppo non c’è diritto di recesso.

Sarà per questo che c’è una diffusa sensazione di morte del futuro? Come se qualsiasi progetto utopistico, rivoluzionario o comunque di cambiamento profondo fosse impossibile. O, di nuovo, è questo bombardamento di informazioni, la sensazione di dover essere costantemente aggiornati, allineati con i cambiamenti tecnologici velocissimi e ormai impossibili da gestire, a impedirci di sollevare lo sguardo e il pensiero dall’immediato? Perché sembra che non ci siano alternative all’esistente?

Il paradosso del cyberpunk

Mai come oggi viviamo in un mondo cyberpunk. In cui i romanzi cyberpunk possono essere letti come vere e proprie guide del presente. Eppure, allo stesso tempo, il cyberpunk come fenomeno letterario ci appare paradossalmente come qualcosa che appartiene al nostro passato. Viene spesso abbinato all’immaginario anni Ottanta fatto di grafica pixelata, o ai colori fluo delle immagini vaporwave (una corrente artistica nata su internet che ha al proprio centro l’estetizzazione nostalgica di passati futuristici). Il nostro presente è il futuro di quel passato, eppure ci piace immaginare che ci sia uno scollamento, che quello raccontato non fosse esattamente il futuro come è davvero accaduto, ma una fantasia rétro. Come nel racconto di Gibson, Il continuum di Gernsback, in cui il protagonista visita una dimensione parallela in cui si sono realizzate le invenzioni della fantascienza anni Trenta, alla Flash Gordon.

Insomma, ecco il paradosso: il cyberpunk viene visto con nostalgia, estetizzato – e quindi reso innocuo – come malinconico futuro mai realizzato. Questa vera e propria rimozione credo sia il nostro modo per esorcizzare una paura, per non fare i conti con la realtà: e cioè che quel mondo brutale, violento, quell’«esperimento deragliato di darwinismo sociale, concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-veloce» (è Gibson in Neuromante) dei romanzi cyberpunk è il mondo in cui siamo immersi. È il nostro mondo.

Perché c’è questa rimozione, questa dislocazione del futuro in un passato immaginario?

Andiamo con ordine.

Il cyberpunk è stato il primo fenomeno nato all’interno della fantascienza ad aver influenzato la letteratura cosiddetta mainstream e la cultura in senso ampio. Nasce da un mix di intuizioni e influenze che esorbitano la fantascienza e a volte la letteratura stessa. Il cyberpunk è letteratura pienamente postmoderna: anzi, per la centralità che dà al rapporto tra società e tecnologia, tra psiche individuale e media digitali, tra tradizione e pastiche, potremmo dire che è proprio al cuore del postmoderno e delle sue ansie. Non a caso è influenzato da autori come Thomas Pynchon o Don DeLillo, passando per il fondamentale, soprattutto per Gibson, William Burroughs. E influenza gli scrittori postmoderni coetanei e più giovani, da Mark Leyner a David Foster Wallace, da Richard Powers a William Vollmann.

L’influenza extraletteraria del cyberpunk è così vasta e capillare che qui posso solo farne un rapidissimo sommario. Non c’è ambito della cultura, da quella pop a quella di nicchia, a non averne registrato il passaggio: dai manga giapponesi (con opere fondamentali come Ghost in the Shell di Masamune Shirow e Akira di Katsuhiro Otomo) agli anime; dai videogiochi (Syndicate, System Shock, Deus Ex, gli adventure game tratti da Blade Runner e Neuromante, fino al recentissimo titolo-evento Cyberpunk 2077) ai fumetti occidentali; dal cinema (RoboCop, Tetsuo, la trilogia di Matrix...) alla musica; dalle serie tv (si pensi alla terza stagione di Westworld) all’arte contemporanea. E così via.

Quando è successo di nuovo che un fenomeno letterario avesse una tale influenza fuori dall’ambito letterario?

Rispondo io: mai più.

Il cyberpunk è al centro del canone letterario postmodernista, che a sua volta racconta la sensibilità di un’epoca, quella postmoderna appunto, in cui sono cadute le gerarchie estetiche, in cui tutto è disponibile al riuso ironico, alto e basso si ribaltano in una giostra continua, e tutto, anche la storia, appare smaterializzato dentro il gioco serio del linguaggio.

Oggi, quarant’anni dopo, il postmoderno ci appare una stagione ampiamente superata, i suoi prodotti culturali come tipici di un’epoca che non è più la nostra. Allora come mai il cyberpunk, invece, continua a parlarci? Come mai quelle storie, quella volontà, quell’eccitata tensione continuano a interrogarci? Quale turbamento provocano, al punto da doverlo rimuovere e disinnescare dietro una nebbia di nostalgia retromaniaca?

Non solo genere letterario

Il 15 gennaio 1990 collassò il sistema per le chiamate interurbane dell’azienda telefonica AT&T, causando un blackout telefonico in vaste parti degli Stati Uniti per un intero pomeriggio. A causare l’incidente era stato un errore al software di gestione delle telefonate, come la stessa azienda ammise. Ma il clima di paranoia che si respirava all’epoca spinse l’Fbi a lanciare l’“Operazione Sundevil”: una serie di retate e indagini che portarono all’arresto di tre hacker che nulla avevano a che fare con l’incidente. Questa storia la racconta egregiamente Bruce Sterling nel libro-inchiesta Giro di vite contro gli hacker, e ci ricorda come il cyberpunk non indichi solo un genere letterario; è stato anche un movimento sociale, una sensibilità politica, una forma di militanza e di resistenza: il tentativo di hacker, pirati digitali, artisti, intellettuali, operatori sociali di costruire “zone temporaneamente autonome”, di usare la tecnologia e il suo potere emancipativo per immaginare realtà sociali alternative. Non a caso in Italia questo sentire politico è stato mediato e importato da case editrici anarchiche e di sinistra come Shake e riviste come Decoder, Virus, Alphaville, Virtual.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, l’informatica esce dalle università e dai centri di ricerca industriali, entra nelle camerette dei teenager, nei garage dei nerd, nei centri sociali. E con essa l’idea che un’informatica libera potesse aiutare a liberare gli individui e le comunità. Qualcuno imparerà a programmarci i suoi videogiochi, altri fonderanno la Apple, altri ancora metteranno in piedi banche dati digitali con testi esplosivi e rivoluzionari. Nel 1990 nasce l’EFF, Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione no-profit di avvocati e legali per la difesa della libertà di parola in rete. Quando, a metà degli anni Novanta, internet inizia a diventare un fenomeno di massa, prende piede (per esempio intorno alla rivista californiana Wired) una vera e propria ideologia secondo cui la rete sarebbe stata uno straordinario mezzo di emancipazione. Di disintermediazione: internet avrebbe tagliato i vincoli con cui “i mediatori” (la stampa, i media, le istituzioni tradizionali) ci incatenavano. Internet ci avrebbe liberato.

Wow.

Ehi, fermi tutti. Allora come siamo arrivati all’oggi, con i giganti tecnologici diventati ancora più ricchi e potenti grazie alla pandemia da Covid-19, quando si parla delle storture del capitalismo della sorveglianza e delle disuguaglianze sociali che crea, quando i social hanno trasformato la discussione pubblica in una costante tempesta di merda? Cosa è andato storto?

In una recente intervista William Gibson ha dichiarato: «Io per primo ero sempre a dir poco perplesso per l’assenza, negli anni Novanta, di scenari men che ottimisti sullo sviluppo della rete. La parola ‘disruption’ era sulla bocca di tutti, la distruzione del mondo come lo conoscevamo era una prospettiva di cui tutti sembravano ben lieti. C’era una certa compiaciuta fiducia che questo cambiamento fosse una cosa buona di per sé. Mi colpiva, e mi lasciava ancora più perplesso, anche notare come le persone che più sostenevano queste opinioni fossero anche dei fan dei miei romanzi! Eppure io ho sempre fatto di tutto per descrivere i risultati complessi e problematici di quelle tecnologie che hanno finito per assomigliare a internet».

Non c’è alternativa

Le zaibatsu (megacorporazioni i cui interessi e ricchezze sono vasti e ramificati) sono le vere protagoniste dei romanzi cyberpunk: corporation al cui apice ci sono figure oscure e sfuggenti, un’élite autoreferenziale e predatoria (come i Tessier-Ashpool in Neuromante) che accumula enormi ricchezze grazie a un capitalismo piratesco e teoricamente illegale, se ancora ci fossero leggi che provano a limitarlo. Anche perché in un mondo in cui aziende private hanno capitali e poteri superiori a quelli di una nazione, di fatto lo stato non esiste più. Nel mondo cyberpunk non c’è più lo stato, se non come vago scheletro burocratico, come burattino posseduto ora da questo interesse ora da quella corporation, svuotato da successive privatizzazioni di qualsiasi welfare. La città, una metropoli informe e notturna, uno sprawl, si estende su tutto il globo, ma non ha più niente della polis: è una giungla di pura violenza fisica e sociale, uno scenario devastato di disuguaglianze, in cui pochi ricchissimi (diciamo l’uno per cento) prosperano a scapito del novantanove per cento di disperati. In cui l’apocalisse non appartiene al futuro: il mondo è già finito, l’apocalisse è già avvenuta e sta continuando ad avvenire.

Sul Daily Telegraph del 22 maggio 1980 appare un’intervista all’allora neo premier inglese Margaret Thatcher: «So che le nostre politiche possono non essere facili da digerire, ma sono quelle giuste. Sono convinta che la gente accetterà che non ci sono alternative». «There is no alternative», da cui l’acronimo Tina: non c’è alternativa alle politiche neoliberiste, sono le uniche possibili altrimenti andiamo incontro al disastro, dice. È l’inizio di un’egemonia politica, economica e infine culturale del neoliberismo che dagli anni Ottanta è proseguita praticamente fino a oggi. Non a caso alcuni storici hanno iniziato a parlare di “lunghi anni Ottanta” per definire quell’epoca: pur nelle differenze profonde che si sono succedute, più importante è la continuità di quelle politiche, l’idea che «non esiste la società, solo l’individuo» (ancora la Thatcher). Ecco: il cyberpunk, lungi dall’essere il residuato un po’ nostalgico e retromaniaco di un tempo vicino ma distante, è la vera e grande letteratura critica del neoliberismo. Ne è il suo realismo, che nel 1984 ci appariva come fantascienza e oggi, quando il futuro è “arrivato dappertutto”, appare come cronaca fedele.

Era tutto lì, era tutto già lì, davanti ai nostri occhi, solo che non lo vedevamo, non facevamo abbastanza attenzione. Per fortuna c’erano, e ci sono, degli scrittori, dei punk, che hanno fatto attenzione e hanno raccontato ciò che vedevano. Ci hanno cantato le tenebre che stavano calando. Ma ci hanno anche ricordato che le alternative esistono.

Il futuro non è morto e lotta insieme a noi.


Domani 9 febbraio esce il libro Cyberpunk. Antologia assoluta, edito da Mondadori e contenente i grandi capolavori del genere: Neuromante di William Gibson, La matrice spezzata di Bruce Sterling, SnowCrash di Neal Stephenson e i racconti-manifesto Mirrorshades. Completano il volume l’introduzione inedita di Bruce Sterling e la postfazione di Francesco Guglieri, da cui è tratto questo articolo

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