Con il progredire del nichilismo – esploso all’inizio come una “patologia” rivoluzionaria, e giunto infine a essere accettato come una normale fisiologia della condizione umana contemporanea – viene a mutare radicalmente il concetto dell’essere umano come un essere “spirituale”. Già nello Zarathustra di Nietzsche la volontà del superuomo coincideva con il «rimanere fedeli alla terra» – installati nella dimensione biologica del corpo –, mentre i valori spirituali finivano per essere smascherati come mere «speranze sovraterrene». E quelli che parlano ancora di una realtà spirituale nell’uomo non sono altro che gli «avvelenatori», «dispregiatori della vita, moribondi e avvelenati essi stessi» (Così parlò Zarathustra, Prefazione, 3).

Lo “spirito” sta in un altro mondo rispetto a quello terrestre, un sovramondo illusorio e menzognero, che copre e sublima le pulsioni telluriche (e inconsce) che muovono il nostro corpo. E qui si intravede un’altra grande presenza, sebbene spesso mimetizzata, della filosofia del nostro tempo, Arthur Schopenhauer. Sua è l’idea che al fondo della realtà, e nel profondo della vita umana, dòmini una forza cieca, una volontà che non ha scopo e senso alcuno, se non il suo stesso volere, di cui noi siamo partecipi attraverso gli istinti del nostro corpo e che cerchiamo per tutta la vita di contenere e di sublimare, ma di cui alla fine restiamo vittime impotenti. Perché è una volontà senza ragione, che finisce per divorare lo stesso soggetto del volere. Così l’istinto, da essere un invito al piacere, finisce per essere la condanna al dolore più acuto che si possa sperimentare, quello che fa soffrire in maniera assurda, senza perché.

Da un lato l’ideale o lo spirituale come un cielo ultramondano sempre più staccato dalla terra; dall’altro il corporeo e il materiale come il mondo della volontà sempre più identificata con l’istinto. Il fatto è che lo spirito e il corpo stanno insieme o cadono insieme. E se ne perdiamo uno, smarriamo presto anche l’altro. Ma questo per Schopenhauer (e per il nichilismo del nostro tempo i suoi eredi, diretti o indiretti) vuol dire che ciò che è razionale, sensato, orientato a un fine, in realtà è solo una forma transeunte del deforme, una maschera del caos. Noi “siamo” il nostro corpo perché il corpo coincide con la volontà, e la volontà è l’“in sé” del mondo (…)E quando Sigmund Freud scoprirà, all’interno della sua pratica psico-analitica, la potenza – insieme fisiologica e patologica – dell’inconscio, ne parlerà come di pulsioni vitali “rimosse” («il rimosso è per noi il modello dell’inconscio», scrive in L’Io e l’Es del lontano nel 1923), qualcosa che sta «a metà strada tra la fuga e la condanna».

Ma l’io non può mai fuggire da sé e dai propri impulsi, mentre può condannarli attraverso il giudizio di un “Super-Io” che inibisce la soddisfazione dei desideri vitali. Il nostro corpo è abitato ed è anzi “vissuto” passivamente – al di sotto della coscienza – da una forza impersonale, che la lingua tedesca chiama con il pronome neutro “Es”, secondo l’idea dello psicoanalista Georg Groddek fatta propria poi da Freud. Dall’Es dipende tutto nella vita: esso decide dell’ammalarsi o dell’esser sani. Si tratta di un potere occulto e onnipervasivo che può trasformarsi in una cellula di urina come in una cellula cancerosa, ma sempre in virtù della sua vitalità può diventare anche percezione, pensiero e volontà. È inconscio e coscienza insieme. E tuttavia, conclude Groddek, «quanto all’Es in sé stesso, non ne sappiamo nulla».

Controllare tutto

È significativo il fatto che nelle mutate condizioni del nichilismo contemporaneo questa forza impersonale che, per così dire, agisce dall’interno della vita degli esseri umani – dei “corpi” come degli “spiriti” – sia stata reinterpretata come un dispositivo politico che dall’esterno giunge a informare e conformare di sé l’interno della vita e della morte dei corpi umani. È appunto il corpo degli umani a essere sempre più considerato come la vera posta in gioco per risolvere il problema dello spirituale.

Tutta una corrente di analisi delle società moderne, che nasce con Michel Foucault e arriva fino a Giorgio Agamben, ha chiamato “biopolitica” il grande dispositivo che il potere – ogni “potere” in quanto tale, politico, economico, ecclesiastico – esercita per controllare la vita degli esseri umani attraverso la normalizzazione o la medicalizzazione o la sterilizzazione del bios, che è l’unica risorsa – indifesa ed esposta – delle persone, a partire dal loro essere sessuate. Secondo questi autori, l’interesse di chi comanda veramente nel mondo di oggi, vale a dire il potere capitalistico nella sua estrema forma economico-finanziaria, è quello di disinnescare la nuda potenza dei corpi. Si compirebbe così una traiettoria che va dalla prima epoca moderna, con il controllo che i preti mantenevano sui corpi attraverso lo strumento della “confessione” delle anime, sino al respingimento del corpo dei migranti – esseri alla deriva spossessati della propria identità umana –, e non da ultimo sino alla gestione dell’emergenza del Covid-19 come occasione per rendere permanente uno “stato di eccezione” tipico dei regimi totalitari, quello teorizzato da Carl Schmitt e riferito alla possibilità che in una determinata circostanza di crisi sociale, politica ed economica il potere sovrano decida la sospensione delle leggi ordinarie di uno Stato.

«Di pari passo all’affermarsi della biopolitica – scrive per esempio Agamben – si assiste a uno spostamento e a un progressivo allargarsi al di là dei limiti dello stato di eccezione della decisione sulla nuda vita in cui consisteva la sovranità» (…).

Carni esposte

Ma cosa può salvare veramente il corpo degli umani, la loro stessa vita biologica, cioè sociale, politica? Nell’imporsi del nichilismo si era creduto che per questo scopo fosse necessario (e sufficiente) staccare il corporeo dallo spirituale – inteso come sovrastruttura astratta o dover essere morale –, perché si imputava a quest’ultimo la mortificazione del corpo.

Così è stata elaborata la contromossa: ridurre lo spirituale all’elaborazione “culturale” del corporeo, a costruzione di dispositivi antropologici, sociali ed etico-politici. La repressione dell’istinto ha fatto largo alla liberazione di esso (e all’enorme successo della società dei consumi) ma, come in un circolo fatale, quanto più il corporeo si liberava, tanto più si consegnava inerme al controllo dei valori tecno-efficientisti della cultura dominante, quindi a una forma larvata dello “spirito”.

Però ciascuno di noi “sa” per esperienza cosa sia il proprio corpo. Tale sapere non è acquisito solo grazie alla ripetizione dell’istinto come un meccanismo di azione/reazione, ma per il fatto che tutti percepiamo il nostro corpo come una specie di “chiamata”.

La cosa che più mi ha colpito, in occasione di una recente operazione chirurgica cui sono stato sotto posto, attraversando un periodo in cui il mio corpo non era a mia disposizione, anzi era inceppato da molti impedimenti ed esposto alle tecniche di cura, è che attraverso il mio corpo cominciavo a capire effettivamente la dimensione incarnata del mio “spirito”. Il mio corpo non era solo una serie di tessuti o di sistemi nervosi e sanguigni, ma era un corpo che riceveva sé stesso, che cercava sé stesso, che pativa o gridava, che trascendeva il suo mero soma.

Il mio corpo si stava svelando come una “carne”. La carne è la nostra più profonda vocazione – oso dire – spirituale: è il corpo proprio, il corpo vissuto (di cui la fenomenologia ci ha dato descrizioni memorabili, da Husserl a Merleau-Ponty a Michel Henry), la chiamata a essere noi stessi – proprio noi, non altri – e insieme il nostro chiamare a noi il mondo, la nostra capacità di percepire sensibilmente il senso più-che-sensibile della vita. Come ha detto una volta Francis Bacon, il pittore della carne umana che diventa essa stessa urlo di senso, fino a essere uno spasmo (pensate a una delle sue Crocifissioni in forma di animale squartato): «È un istinto, un’intuizione, che mi spinge a dipingere la carne dell’uomo come se si diffondesse fuori dal corpo, come se fosse la propria ombra» (Conversazione con Francis Bacon, un’intervista di Franck Maubert risalente agli anni Ottanta del secolo scorso).

Ricorda proprio – per quanto alto sia l’azzardo – l’annuncio dell’angelo a quella giovane di nome Maria: «Lo Spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1, 35).

E infatti è strepitoso vedere le carni esposte e urlanti di Bacon in controluce alla perfetta compostezza degli “incarnati” di Raffaello. Una volta visti insieme, è come se non potessimo staccarli più l’uno dall’altro, perché nella politezza divina della forma raffaellesca vibra la stessa ombra che divinamente inquieta e destruttura la forma baconiana. La stessa “ombra” – quella che rende il corpo una carne e che fa della carne la percezione sofferta dello spirito. In cui il dolore e la gloria ridiventano amici tra loro.

Questo testo è un estratto del volume Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, edito da Carocci.

 

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