Se fai lo scrittore, prima o poi, ti capiteranno almeno due cose.

La prima è sperare di scrivere un racconto che abbia la perfezione de I morti di Joyce, dove l’esistenza piena e serena di una coppia viene messa in crisi da un ricordo che si ficca come una spina nell’anima della moglie, Gretta: un ragazzo che, sfidando la malattia che lo opprimeva, era rimasto tutta la notte sotto la pioggia per aspettarla invano, fino a morire. Sono passati molti anni, ma a Gretta basta ascoltare una certa musica, si accorge il marito, per “rammentare quei momenti, farle dimenticare gli anni della noiosa vita in comune e ricordarle soltanto gli attimi di estasi”: e allora chi lo sa chi è davvero morto e chi è davvero vivo.

La seconda è pensare:- Mi è successa una cosa talmente incredibile che, se la mettessi in un racconto, non funzionerebbe: è troppo pacchiana anche per una storia di finzione.

Se invece sei una donna e hai quarantasei anni e nessun figlio, ti capiterà almeno una cosa.

A quel figlio che non hai avuto ci penserai sempre.

Anche mentre non lo sai.

E magari una notte, a letto con l’uomo che è tuo marito, dopo una serata come tante, a cena con Giada, Paolo e Michele, ti ritroverai a buttare lì:- Che ne dici di Vita?

- Che?- Masticherà lui che si stava per addormentare.

- Se avessimo avuto una bambina, mi sarebbe piaciuto chiamarla Vita. Perché, se fosse stato maschio, non avrei potuto fare felice mio padre e chiamarlo Vito, come lui…Vito non è un nome adatto a un bambino, dai. Non credi?

- No…Sì…Boh. Ma che hai?

- Niente. Stavo solo pensando. Che Vita è un nome bellissimo. Perché è Vito al femminile. E poi è tutto il resto: è vita.

- A me, francamente, pare troppo fricchettone.

- A me no.

- Vieni qua. Buonanotte.

- Buonanotte.

Il viaggio di maturità

Se hai diciannove anni, hai appena dato la maturità ma non sai se accontentare i tuoi e iscriverti a Giurisprudenza o inseguire il sogno di fare la scrittrice e iscriverti a Lettere, anziché prendere subito una decisione, ti può capitare di prendere un treno.

Quello che avevo preso io, con Giada, Luca e Michele ci stava portando a Parigi, dove saremmo stati qualche giorno, per poi imbarcarci per Dublino.

E proprio sul traghetto l’avevo incontrato.

Aveva gli occhi grandi e azzurri, il sorriso maleducato e sedici anni. Si chiamava Jean, non gli era mai piaciuto studiare e lavorava con i suoi in un negozio di lampade, ma le sue aspirazioni erano altre.

- Vorrei vedere tutto il mondo, facendo quello che capita, giusto per avere qualche soldo per mangiare.- Mi raccontava, sul pontile, mentre tutti si erano ritirati nelle loro cabine ma noi non ce n’eravamo accorti e avevamo continuato a bere e a chiacchierare in inglese, senza che nessuno dei due lo sapesse davvero parlare.- I miei genitori hanno passato la maggior parte della loro esistenza a vendere lampade. E perché? Per starsene sul divano, la domenica, mio padre a guardare le partite e mia madre a fare le parole crociate. Poi, il giorno dopo: alè, si ricomincia. A vivere, credono loro. A morire, credo io. Capisci?

Capivo, capivo. Certo che capivo. Mentre ho cominciato a non capire più niente, quando lui ha cominciato a baciarmi: e da quella notte non ci siamo più lasciati.

Jean si è unito a me e ai miei amici, ma presto lui e io ci siamo separati dal gruppo: erano troppe le cose da dirci, anche se non avevamo una lingua per potercele dire, troppo il bisogno, troppa la voglia.

Di andare alle isole Aran e immaginare che fosse lì il confine dove il mondo smetteva di essere quello che era e diventava un’altra cosa.

Di giocare a calcio nei prati di Cork, una lattina di birra come pallone.

Di aspettare la mattina in un pub di Dublino, perché ci eravamo dimenticati dove fosse il nostro ostello.

- Amour.- Mi diceva, prima di prendere sonno.

- Amore.- Gli dicevo io.

- Sembra un Harmony, te ne rendi conto?- Paolo, sul treno di ritorno, sgranava gli occhi davanti ai miei racconti. E Giada e Michele ridevano da non riuscire a fermarsi.

- Cretini. E’ quello che dovremmo fare tutti, quando facciamo l’amore: no? Dovremmo rinunciare alla nostra lingua e inventarcene un’altra insieme all’altra persona. Non a caso Jean dice che è sempre stato certo che avrebbe sposato un’italiana…

- Dai, Chiara.- Era sbottata Giada.- O dovrei chiamarti Claire?

E giù a ridere.

- Ma che vi prende?-

- A noi? Cosa prende a te, semmai…Credi davvero che questa storiella abbia un futuro?- Mi aveva chiesto Giada.- Che, insomma, potrebbe sopravvivere alla prova cappotto?

- La prova cappotto?

- È la prova che tutte le storie estive falliscono. Rivedi lui, che sulla spiaggia ti faceva impazzire, ma nella sua realtà di tutti i giorni, lui rivede te nella tua. Con il cappotto addosso, appunto. E, nello specifico, lui ti apparirà il ragazzino senza arte né parte che è, tu la rompicoglioni che sei.

- Il problema non si pone, fra noi.

- E perché?

- Perché in Irlanda fa un freddo cane: ci siamo già visti in cappotto.

- Quindi che cosa pensi di fare?

- Di raggiungerlo a Parigi. Voglio cercare un lavoro, imparare il francese...Cose così.

Soprattutto, Jean Luc e io volevamo stare insieme.

Viaggiare.

Non morire, giorno dopo giorno, ma vivere.

Non finire come i suoi genitori.

Non finire come i miei.

E però un figlio l’avremmo avuto. Anzi, una figlia.

- Sarà misteriosa come te.- Diceva Jean Luc.- E da grande suonerà il violino.

- Sarà bella come te.- Dicevo io.- E da grande sarà felice.

Finire l’amore

Se hai diciannove anni, non ti sei ancora iscritta all’università e raggiungi a Parigi un ragazzo che hai conosciuto su un traghetto per l’Irlanda, devi avere le idee parecchio confuse.

Io ce le avevo.

Però, nei primi giorni, la stanza a casa dei genitori di Jean dove dormivano allacciati in un letto singolo, mi pareva l’unico posto giusto per me.

Poi passò una settimana. Ne passò un’altra.

Ogni mattina lo accompagnavo al negozio di lampade e me ne stavo lì, a studiare il francese. Chiuso il negozio, passeggiavamo. Ogni tanto lui s’imputava perché imparassi a usare lo skate board e andavamo in un parco. Ma non c’era verso: né che imparassi il francese, né che imparassi lo skate board.

Finché una notte, di colpo, mi svegliai. Il cuore mi batteva furioso e forse fu quello, chissà, a svegliare anche Jean. Che accese la luce e mi guardò negli occhi.

- Qu’est-ce que se passe?

- Niente.

- È finito l’amore?- Chiese.

Così.

In un italiano perfetto e senza girarci attorno. È finito l’amore? Mi chiese Jean.

E questa, questa è una cosa che non si può dimenticare.

Gli risposi ma no, ma che dici.

Allora lui mi propose:- Ci facciamo una canna?

- Maddai, sono le tre di notte…

- Facciamo l’amore?

- Basta! Mica si può risolvere sempre tutto così.

Invece per lui si poteva.

Me lo continuò a ripetere anche all’aeroporto, dove dopo pochi giorni mi accompagnò.

- Non partire. Se facciamo l’amore, vedrai che si sistema tutto.

- Ho solo bisogno di andare a Roma per qualche giorno.

- Non è vero, tu non tornerai più.

- Certo che torno.

- Non tornerai.- Quegli occhi belli, quegli occhi azzurri, si riempirono di lacrime.

E questa è un’altra cosa che non si può dimenticare.

Una bambina a Parigi

Se una notte, dopo circa due mesi da quella in cui blateravi di un certo nome per la figlia che non hai avuto, non hai chiuso occhio, quando tuo marito andrà a lavorare, può capitare che tu apra il computer. Soprattutto se fai la scrittrice.

Può capitare che però, quella mattina, tu proprio non riesca a portare avanti il tuo romanzo.

Che quindi ti metta a perdere tempo su Facebook.

E ti chieda come mai non ti sei mai chiesta che fine abbia fatto quel ragazzino, il francese, come si chiamava?, ma sì: Jean.

Vediamo un po’.

Digito il suo nome e il suo cognome sorridendo, mentre non mi accorgo che, se sto bevendo il terzo caffè in mezz’ora, forse c’è qualcosa che non va.

Ed eccolo lì, Jean: quarantatré anni.

Alla voce “professione” sono indicati il nome e l’indirizzo del negozio di lampade dei suoi.

Ha sempre gli stessi occhi.

Lo stesso sorriso maleducato.

Qualche ruga, i capelli che danno sul grigio.

Eccolo lì, nell’immagine che fa da copertina al suo profilo: e stringe a sé, spudoratamente fiero, una neonata.

«Benvenuta, Vita». C’è scritto in italiano, a commento della foto datata cinque mesi prima. «La tua mamma Alessandra e io non vedevamo l’ora di conoscerti”.

Se fai lo scrittore, è molto probabile che, anche se lo speri, non scriverai mai un racconto come I morti di Joyce.

Ma se in più sei una donna, hai quarantasei anni, nessun figlio e se molto tempo fa eri scappata a Parigi per due settimane, può invece capitarti di avere l’impressione di esserci caduta, dentro a quel racconto.

In questa versione, però, nessuno è morto sotto la pioggia per te: e, anzi, al tuo lontano amore è nata una bambina che si chiama Vita.

E’ altamente improbabile, e se capitasse non lo metteresti mai in un racconto (non funzionerebbe: sarebbe troppo pacchiano anche per una storia di finzione!) che solo due mesi prima di scoprire il nome di quella bambina, e tre mesi dopo che era nata, tu, chiacchierando a letto con tuo marito, abbia detto che proprio così l’avresti voluta chiamare, la figlia che non hai.

Vita.

Ed è altrettanto improbabile che non si tratti di un nome comune, che sono in tante a portare, ma si tratti di un nome come quello.

Vita.

È tutto talmente improbabile da essere vero.

Così, non capisci bene il senso di quanto ti è successo nelle ultime ore. All’improvviso ti sfugge anche quello di quanto ti è successo in quarantasei anni.

Ma ti affidi a quel nome.

Vita.

A tutti i treni, i traghetti e gli aerei che hai preso.

A quelli che hai perso.

Alle andate, ai ritorni, alle andate senza ritorno.

Agli amici con cui ti eri illusa di invecchiare, e invece.

A quelli che ancora resistono. Alle loro mogli, ai loro mariti.

Al tuo.

Al lavoro che sognavi di fare e fai, alla figlia che sognavi di avere e non hai.

Al lavoro che un altro non aveva nessuna intenzione di fare e fa, alla figlia che sognava di avere e ha.

A ogni giorno.

Perché non passi invano.

E perché quello successivo: alé, si ricominci.

Facendo attenzione a non morire troppo.

Almeno finché siamo qui.

In questo viaggio senza maturità, ogni tanto tremendo, ogni tanto straordinario, che a volte ci annoia, a volte ci lascia senza fiato e si chiama come una bambina che a Parigi, nel 2024, imparerà a dire mamma.

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