L’amor mio è svanito e mi ha lasciato un tamagotchi: un uccellino; piccolo piccolo, passeggiava nel suo schermetto. Ho chiesto al tamagotchi: «Dov’è andato l’amor mio?». Il tamagotchi ha detto: «L’amor tuo è svanito, e io ho fame e freddo. Non farmi morire di fame e freddo».

Ho dato da mangiare al tamagotchi e me lo sono messo sotto l’ascella per tenerlo al caldo. Sono rimasto così, seduto sulla poltrona, con il tamagotchi sotto l’ascella, finché è venuta sera. Quando è venuta sera ho sentito il tamagotchi che faceva: «Pio, pio». «Hai di nuovo fame?», gli ho detto. «No», mi ha detto, «ma ho fatto la pupù. Guarda che gran mucchio di pupù!».

Tolsi il tamagotchi da sotto l’ascella e lo guardai: lo schermetto era quasi tutto nero di pupù. «Togli la pupù, sto soffocando!», strillò il tamagotchi. «Subito», dissi. Tolsi la pupù, la tolsi tutta, per bene, fino all’ultima briciolina, e poi dissi: «Tutto a posto, tamagotchi? Così va meglio?». «Molto meglio, grazie», disse il tamagotchi, «tu non hai idea di che puzza c’era, qui dentro». «Hai bisogno di qualcos’altro?», domandai. «Ho sonno ma non riesco a dormire», disse il tamagotchi. «E io cosa posso fare?». «Puoi cullarmi un poco, per favore?».

Così cullai il tamagotchi per qualche minuto, piano piano, sussurrando una canzoncina, «Dormono le case, dorme la città…», lentamente, e il tamagotchi si addormentò: stava sdraiato con la pancina in su, le alucce abbandonate, e la pancina si alzava e si abbassava, appena un pochino e un pochino; delle piccole «z» e delle «zz» svolazzavano nello schermetto.

Nel frattempo era venuta notte, notte fonda, e a me spuntavano delle lacrime dagli occhi perché l’amor mio era svanito e non sapevo dove fosse. «Dove sei, amore mio?», dicevo, solo col pensiero per non svegliare il tamagotchi, «in quale posto del mondo sei? Che cos’è successo, che sei svanito così, senza dire niente? Un attimo prima eri qui, e poi sei svanito».

Ogni tanto guardavo il tamagotchi, che tenevo sulla pancia – ero sempre lì, seduto nella poltrona – per essere sicuro che stesse bene, che dormisse tranquillo e beato; lui faceva sempre «z» e «zz», e mi pareva, sì, tranquillo e beato.

«Non preoccuparti per il tamagotchi, amore mio», dicevo allora, «è qui con me, e io bado a lui; gli ho dato da mangiare, l’ho tenuto al caldo, l’ho pulito dalla pupù, l’ho cullato piano piano; e adesso dorme, tranquillo e beato».

La stanza era tutta buia, dalla finestra entrava un po’ di luce dei lampioni, e io stavo sempre nella poltrona col tamagotchi sulla pancia: il po’ di luce bastava appena perché potessi controllare lo schermetto, che tutto andasse bene.

Mi addormentai, e sognai l’amore mio: nuotava nel mare, ed era bello come un delfino; era del color del bronzo, e ogni tanto saltava fuori dall’acqua, per gioco, e faceva una piroetta e ricadeva giù, nell’acqua, perfetto, senza sollevare schiuma; altre volte, sempre per gioco, si adagiava sopra un’onda, e si faceva portare, stando sempre sul colmo dell’onda, in equilibrio: come un vassoio portato da un cameriere esperto, pensai; «Attento, cameriere! Non rovesciare nulla!», diceva il vassoio, e il cameriere, che era un cameriere esperto, rispondeva: «Tranquillo, ti porto con sicurezza, non rovescerò nulla», e allora il vassoio: «Grazie, cameriere, mi fido di te».

Mi svegliò il tamagotchi strillando, «Pio! Pio!», aprii gli occhi, era quasi giorno, «Piopio!» strillava il tamagotchi, «Sono qui, tamagotchi», dissi, «di che cosa hai bisogno?». «La pipì», disse il tamagotchi, «devo fare la pipì!». Nello schermetto era apparso un vasino, e così feci fare al tamagotchi la pipì, che era tanta, e il vasino si riempì tutto, ma non ne uscì fuori una sola goccia; poi svuotai il vasino e il tamagotchi disse: «Grazie, adesso dovrei fare la colazione, ma preferisco dormire un altro pochino»; e si rimise a pancia in su, con le alucce abbandonate e la pancina che si alzava e si abbassava, e faceva le sue «z» e «zz», e mi pareva di nuovo tranquillo e beato.

Io invece ormai ero tutto sveglio, e ricominciai a pensare all’amore mio. «Vorrei uscire a cercarti», gli dissi nel pensiero, «vorrei uscire a cercarti per le strade di questa città, per le strade di tutte le città, per le campagne e per le valli di montagna, amore mio; ma fuori c’è l’inverno, anche se la giornata è chiara sono sicuro che c’è freddissimo, anche stando qui sulla poltrona vedo che sui tetti delle case vicine c’è del ghiaccetto.

Non posso uscire a cercarti portando con me il tamagotchi, perché lui soffre molto il freddo; potrei tenerlo nella tasca, ma se avesse bisogno di qualcosa dovrei tirarlo fuori, e prenderebbe freddo; e io non voglio che il tamagotchi muoia, perché me l’hai lasciato.

Però se resto in casa col tamagotchi non posso cercarti, amore mio, e allora come facciamo? Ti prego, amore mio, ritorna dallo svanimento in cui sei svanito, o almeno fammi sapere dove sei, e che lì dove sei, dovunque tu sia, stai bene e sei contento».

Il temporale

L’amor mio non rispondeva e non sapevo cosa fare; intanto il giorno cresceva, e c’era sempre più luce; poi invece la luce si confuse con una grande ombra, una nuvola coprì la città, venne buio quasi come a notte, e sentivo i tuoni brontolare, prima lontani e poi vicini, e vedevo i bagliori dei fulmini sui tetti; finché un tuono scoppiò secco sopra la mia casa, e una riga zigzagata di luce attraversò il cielo, e per un attimo nella stanza ci fu una luce violetta, spaventosa: «Pio! Pio!» strillò il tamagotchi, «Piopio!», e guardai nello schermetto, e vidi che saltellava qua e là, ed era spaventato.

«Non aver paura, tamagotchi», gli dissi, «non aver paura. È solo un temporale, un temporale d’inverno, noi siamo nella casa e siamo al sicuro; questa casa è di pietra, e ci vuole altro che un temporale per farle danno». «Ho paura», disse il tamagotchi, «ho tanta paura. Abbracciami».

Allora lo abbracciai, e lo tenni stretto stretto mentre i tuoni scoppiavano sopra la città, e i fulmini rigavano il cielo, e tutto era buio e poi per un attimo tutto era violetto e poi tutto era ancora buio; e la pioggia scrosciava.

Passò il temporale, non durò tanto ma sembrò tanto, e di nuovo tornò il sole, come fanno i temporali d’estate, anche se era inverno, e i tetti bagnati brillavano, e l’aria era trasparente e pura; e il tamagotchi aprì gli occhi, che per la paura aveva tenuti chiusi, e si sciolse dall’abbraccio e andò alla portafinestra del balcone. La aprì. Uscì sul balcone.

Mi alzai dalla poltrona, uscii anch’io sul balcone. Il mare era disteso e tranquillo, percorso da piccolissime onde, tante e piccolissime, e piccoli rivoli di schiuma scintillavano dappertutto. «Siamo stati bene, qui», disse l’amor mio, «c’è stato il temporale ma è passato, e noi siamo stati bene qui, non è vero?».

«Siamo stati tanto bene», dissi, e guardavo il mare e il cielo, e guardavo la luce. «Non ho mai visto così tanta luce», dissi. «Grazie, che ti prendi cura del tamagotchi», disse l’amor mio. «Me l’hai lasciato», dissi, e poi dissi: «Ma tu puoi restare?». «No», disse l’amor mio, «il mio destino è svanire, volevo salutare il mare e il cielo e la luce».

«Ciao, amore», disse il mare, «Ciao, amore», disse il cielo, «Ciao, amore», disse la luce, «Ciao a tutti», disse l’amor mio, e di nuovo svanì: nel mare e nel cielo e nella luce. «Pio, pio», mi chiamò, sommesso, dalla stanza, il tamagotchi. Rientrai, chiusi la portafinestra, guardai i tetti delle case e mi sembrarono più rossi di sempre, più rossi di come li avessi mai visti.

Il tamagotchi mi abbracciò di nuovo e mi disse: «Siamo felici?». «Possiamo essere felici», risposi, anche se non sapevo se era vero: era vera la speranza, però. «Adesso fammi fare la colazione», disse il tamagotchi. «La faremo insieme», dissi. «Faremo tutto insieme, noi due», disse il tamagotchi, «perché l’amor tuo è svanito, e siamo rimasti soli». «Sì», dissi, «è svanito nel mare e nel cielo e nella luce; e noi siamo rimasti soli». «Mi vuoi bene?», disse il tamagotchi. «Ti voglio tanto bene», dissi.

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