Quando ero piccolo, mi piaceva assai fare due cose: bestemmiare e immaginare come sarebbe stata un giorno la mia bara.
Mi mettevo appresso ai beccamorti e gli chiedevo la differenza tra quercia, frassino, faggio e tutti gli alberi del mondo, e fantasticavo sulle loro cortecce e i loro cerchi e le loro rughe che si sarebbero fatti tessuto di legno e mi avrebbero vestito come un mantello, una volta per sempre.

E quanto gli scassavo il cazzo al beccamorto, non mi sopportava più, mi diceva “Uà, tieni dodici anni e già pensi a ‘ste cose? Pensa a campare, pensa a stare buono che la vita è nu muorzo, manco il tempo di girarti per strada e già non ci stai più”.
Ma io tenevo le fantasie strane, tenevo la capa gloriosa, anche se mia madre mi diceva che qualcosa in me faceva la ruggine e che certe volte facevo paura.
Io mi divertivo assai a bestemmiarle in faccia, quando la mattina ci svegliavamo e guardavamo lo slargo di Piazza Mercato, che si apriva con la stessa ampiezza delle ali di pipistrello: la Madonna, la Vergine, il sangue della colonna, le piaghe dei santi, tutto ci entrava nella mia bocca che diventava una cloaca, una latrina, una saittella e facevo chiagnere la donna che mi aveva dedicato tutta la vita sua, che si era affamata per me, che si toglieva le molliche dalle labbra per nutrire ‘sto figlio che era alto un metro e novanta e si svegliava alle undici, mentre lei era uno sputo di cristiana, così piccola che faceva commuovere le coccinelle, le formiche e tutti gli esseri piccini della terra, e  che si guadagnava il pane pulendo gli scalini, chinandosi per terra a lucidare i pavimenti delle femmine buone, quelle intelligenti, con i mariti giusti, che stavano ammanicati con i giacobini, e che la trattavano come una pezza da piedi, perché mamma era scema, non sapeva leggere, solo la sguattera poteva fare, e poi tornava a casa e si ritrovava pure un figlio come me.
Ma io le dicevo che sarei diventato qualcuno, che avrei fatto la storia della mia città, e che poi sarei morto con grandi onori, e mi avrebbero messo nella più bella bara del mondo, avrei fatto schiattare tutti gli altri napoletani, perché si sa, meglio l’invidia che la pietà.
E sognavo feretri tempestati di cristalli, con intarsiature d’oro e damasco, venature di bosco, respiro di uccelli di foresta, immaginavo casse da morto lussuose come baldacchini del re, piene di drappi, e sulla mia bara vedevo terra e croci talmente alte e maestose da far impallidire i pini vesuviani, avrei fatto arrossire di rodimento tutti quelli che venivano a portarmi un fiore, glielo avrei fatto ingoiare il fiore.
Volevo schiattare in maniera grandiosa, pirotecnica, volevo che il mio nome schizzasse ovunque: dalla Penisola Sorrentina alla Costiera, dal lungomare Caracciolo fino al Granatello di Portici, ma alla fine guardatemi cosa sono diventato, di fronte a voi avete un lazzarone

Il nuovo nome

Ecco quello che sono adesso, ecco il nuovo nome con cui mi hanno battezzato su questo grano di terra che non conoscevo, io manco le so leggere le carte geografiche.
Lazzarone: questa parola mi puzza dentro la bocca, è fetente come le interiora che mi dava il chianchiere a Piazza Mercato, quando non avevo soldi e gli facevo pietà e mi regalava l’intestino di vacca o la vescica del maiale e mamma sfriggeva tutto in padella ed era pure contenta.
Lazzarone, questa parola mi tremmola in bocca, tremmola come quest’acqua scura dove mi hanno portato.
Sono arrivato ‘ccà ngoppa, insieme a tanti altri lazzaroni come me e ci riconosciamo tutti quando sussurriamo, a bassa voce, il nostro antico motto “Liberté, egalité, io arrobbo a ‘tte e tu arrobbi a ‘mme”. Questa è la fine che fanno i sanfedisti, finiscono ‘mmiezz ‘o mare.
Da qua sopra, non vedo niente
Stiamo tutti stipati, siamo lazzari, teniamo la lebbra stampata in fronte, la miseria, siamo cani cenciosi, e avevamo anche il nostro re, Ferdinando IV, il re Lazzarone, si vestiva da morto di fame e se ne veniva a bere con noi, dentro i locali pieni di pulci, quando stava con i suoi lazzari parlava solo in napoletano ed era ignorante come noi. La nostra intelligenza non stava nel cervello, stava nelle mani, nel gruppo, nella squadra: eravamo capaci di prenderci a mazzate tra di noi, ma guai a chi toccava un compagno nostro.
Mi hanno incatastato qua sopra.
Sopra questo masso gigante, questo insieme di pietre tutte scivolose, che se cadi ti apri la testa in due, che se metti un piede storto hai finito di campare e buonanotte a tutti. Non mi chiedete come mi chiamo, che cosa ci faccio qua, datemi il tempo di uscire e torno a completare tutto quello che ho cominciato. Non è niente, è cosa ‘e niente, io mi sono messo a ridere, è pazziella ‘ppe’ creature, io me la magno a mozzichi questa unghia di terra, che sta di fronte a Ventotene.
Se mi azzardo e mi arrischio un po’ col pensiero, io divento un pesce e me ne scappo, vi faccio fessi a tutti quanti, mi faccio lampuga, triglia, cernia.
Non sputare in cielo che in faccia ti torna, mi diceva sempre mamma, e forse mamma aveva ragione, ma noi iniziamo a dare retta ai genitori solo quando non li vediamo più. Io in questa cella non ce l’ho nemmeno lo spazio di sputarmi in faccia, siamo talmente vicini che sento la puzza dei miei compagni: capisco se devono andare di corpo o se sono già andati, mi sono accordato al metronomo dei loro corpi, al loro russare, ai loro rantoli schifosi, ai loro aliti di zolfo e di Averno, ai loro occhi, occhi ‘nguollo, occhi come feritoie, come bottoni, come uova di quaglia, occhi che non mi desiderano, occhi di qualcuno che non mi vuole.
Non mi serve a niente sapere che questo carcere è stato costruito ricalcando il modello del Teatro San Carlo a Napoli, io Napoli la volevo difendere, non volevo stare qui come l’ultimo fesso a vedere quanto è grande la mia città senza di me, quanto la pigliano a modello, se passano i giorni e non mi ricordo nemmeno più l’odore di muffa del vico Scassacocchi, se non mi ricordo più nemmeno il rumore delle villanelle, se mi circonda questo mare che mi pare catrame ed è liquido come gli occhi cattivi di una bestia.

Ma forse la bestia sono io, che ringhio e sbuffo e mostro i denti, se tutti i lazzaroni che mi erano amici adesso iniziano a farmi schifo, se mancasse il cibo io me li mangerei, se non ci dessero più il rancio io salterei addosso a tutti, punterei alla giugulare, e mi berrei tutto il loro sangue campano e lo sputerei nei tombini o forse direttamente in questo mare che non m’appartiene.
E io mi credevo pure uno buono, quando noi lazzaroni siamo riusciti a spaventare i giacobini, quando abbiamo fatto la resistenza, la cordata umana per difendere i nostri quattro stracci e le nostre quattro ossa e i teschi dei morti di colera che arrivano fino al Cimitero delle Fontanelle, fino alle anime pezzentelle, quando ci siamo messi a sputare persino sul sangue di San Gennaro urlando che s’era fatto traditore e giacobino, quando ci siamo messi a cantare “Sòna sòna, sòna ‘a Carmagnola, sona li cunsiglie, viva ‘o rre cu la famiglia”, un’unica voce di miserabili, un unico canto che veniva dal centro della terra e faceva vibrare anche le ultime ginestre sulla schiena di un monte che non vedo più.
Qua non vedi gli altri, ma loro ti vedono sempre: quando pensi, quando bestemmi, quando ti cali le braghe per pisciare, da quando sto qua c’ho il coso che non mi funziona nemmeno più, un animale bello morto tra le gambe, gli occhi si sono presi pure quello, gli occhi mi spiano pure là, nel punto dello scuorno.

I lazzaroni che prima mi erano amici, adesso iniziano a farmi gli sfregi, e anche io li faccio a loro, c’è Michele detto ‘O Pazzo che ultimamente sbaglia sempre a parlare con me e a me qua la testa non mi aiuta, io non sono buono, vedi come te lo dico, gliel’ho urlato, ci siamo urlati a un millimetro dalla faccia, quella sua faccia che mi sorrideva a Piazza Mercato e adesso mi pare il profilo dell’Anticristo, o forse lo sono diventato pure io, sono diventato anche piccerillo, bambino che se la fa addosso, criaturo con i peli in faccia, ispidi come setole di cinghiale, criaturo che piange da solo pensando alle ginocchia della mamma chinata sulle scale di un palazzo, quando giocavo a spaventarla con le mie bestemmie, io le facevo così paura e adesso qua non faccio paura più a nessuno.
Quando sogno, sogno distese desertiche di acqua, acqua che si divide in tante acque diverse: acqua salata, acquamarina, acqua piovana, acqua tra le gambe, acqua sporca che ci fanno bere, acqua nera con cui lavarci le ascelle, acqua da buttare sulle fornacelle dopo aver finito di cucinare, acqua dei pozzi di Napoli, acqua dell’animale esotico che sono, perché i lazzaroni come me sono belli da mettere in una teca di vetro, come leoni in cattività, sono pittoreschi, sono sfiziosi da guardare, ma poi basta, niente ‘cchiù, alla Storia non servono mica.

Qua a Santo Stefano ci sono salite che si snodano come corpi sinuosi di serpenti, certa vegetazione che punteggia l’isola, macchie sulla pelle di un mostro, e di fronte c’è Ventotene da cui partono navi e gabbiani che gridano con voci da vecchie di settant’anni. Le navi e le barchette partono verso Ponza, Ischia, Procida, la costa campana, verso la Sicilia, verso altre isole dalla bellezza crudele, una bellezza fatta di sbarre e che non mi serve a niente.
L’altro giorno io e ‘O Pazzo ci siamo appiccicati, e un po’ ci sono rimasto male: mi aspettavo di appiccicarmi con i pugliesi, i calabresi o i siciliani, non con un lazzarone come me, ma sono diventato lamentoso, perché qua pensieri utili non ne puoi fare, o pensi acqua o pensi cattiverie.
A Napoli, io e O’ Pazzo, ci eravamo spartiti il sonno e la saliva, a Santo Stefano siamo due persone diverse. L’altro giorno per un attimo l’ho riconosciuto, ‘O Pazzo, come l’ho sempre visto quando eravamo i lazzaroni di Piazza Mercato, mi ha abbracciato e i nostri corpi erano saldati l’uno all’altro, come riuniti dalla colla di pesce, e ho sentito il calore del vecchio amico mio.
Ma in un attimo l’abbraccio di Michele ‘O Pazzo si è frantumato, si è squarciato, si è aperto in una raffica, in una mitragliatrice di manate, tutte sulla testa mia, tutte in capa a me, cosa ti ho fatto Miché, e in un momento eravamo per terra, in mezzo alla polvere e alla monnezza, due fratelli nati dalla lava e dalla linfa del vulcano che si scannavano e non si riconoscevano più, due fratelli che avevano cantato le stesse canzoni e parlato la stessa lingua e adesso se ne stavano aggrovigliati per terra come bisce, a volersi uccidere davanti a tutti.
Furono le guardie a separarci, a recidere l’ultimo contatto tra me e Michele ‘O Pazzo.
Ora sono sul palco. Attorno a me, gli occhi di tutti quanti, che mi stringono come una tenaglia. Quando ero piccolo, mi piaceva assai fare due cose: bestemmiare e immaginare come sarebbe stata un giorno la mia bara. Più la guardia mi apre le carni con la corda sulla schiena, più mi rimangio tutte le bestemmie: la Madonna che ho bestemmiato tante volte, adesso me la prenderei in braccio e la ricoprirei di baci, baci sulla fronte, baci in bocca, Madonna non mi far crepare come un cane rognoso.
Quando ero piccolo, mi piaceva assai fare due cose: bestemmiare e immaginare come sarebbe stata un giorno la mia bara, ma adesso vorrei che il beccamorto fosse qui, a vedermi contorcere sotto i colpi della guardia, vorrei che il beccamorto fosse qui, a guardarmi la carne aperta, vorrei che il beccamorto fosse qui, per dirgli che il faggio, la quercia, il frassino non mi servono più a niente, perché la mia bara non è fatta di legno, la mia bara è diventata liquida, la mia bara è acqua di mare e adesso, guardala, la mia bara d’acqua piove per tutto il carcere.

Questo testo è stato scritto da Monica Acito, e letto il 22 giugno, per il Festival Letterario di Ventotene Gita al faro  diretto da Loredana Lipperini, ideato e organizzato da Francesca Mancini, Laura Pesino e Vania Ribeca, promosso dall’ Associazione per Santo Stefano in Ventotene Onlus, in collaborazione con la Libreria Ultima Spiaggia, con il patrocinio del Comune di Ventotene, partner del festival Intesa Sanpaolo. 

© Riproduzione riservata