«Il libro della sua vita non è finito», ha scritto il cardinale Matteo Zuppi nel suo saluto per Michela Murgia, ieri pomeriggio, nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma, dove si celebravano i funerali di Michela. Il cuscino con i peperoncini, i fiori di carciofo, il mirto della sua isola. Una rosa bianca, una sola, posata sul banco in prima fila.

Sull'altare la foto di Michela in rosso, ci scrutava sorniona, come abbiamo a volte temuto e sempre amato quello sguardo. I canti in sardo e quelli dell'Azione cattolica e le bandiere dell'Anpi all'uscita. “Su ali d'aquila”, che fa piangere tutti, e “Bella ciao” che comincia in piazza e entra in chiesa come un fiume, la cantano tutti. Migliaia di persone, in una città deserta, a comporre un funerale politico e ancor più civile. La rivelazione di una comunità.

Mi risuonavano le parole di Alberto Moravia, nell'orazione funebre per l'amico ucciso Pier Paolo Pasolini, in piazza Campo de Fiori, era il 5 novembre 1975: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta».

Si potrebbero ripetere le stesse parole, oggi, per Michela Murgia. Per il suo saluto cristiano, Michela ha scelto una pagina a lei cara, dal vangelo di Giovanni, quando Gesù afferma di essere «la porta delle pecore», il recinto dell'ovile. Un brano inconsueto, letto da padre Antonio Spadaro e commentato dal parroco don Walter Insero.

Michela ne aveva parlato anche nelle sue ultime interviste: «La porta è la soglia tra una divisione: lo spazio dell'ovile - cioè la sicurezza - e l'esterno, dove non c'è la protezione e il lupo è sempre in agguato. È l'idea che non ci siano modi di essere e di stare giusti e sicuri, liberante».

Da quella porta, quel passaggio che Michela Murgia ha rappresentato nella sua vita per chi l'ha conosciuta, ieri, sono passate molte cose. La più importante, il messaggio del cardinale Zuppi, il presidente della Cei, che ha parlato di legami d'amore che non sono di sangue ma di spirito: «Gesù è un fratello d'anima che ci fa credere ai legami d'anima, perché siamo generati non dal sangue, ma dallo Spirito», con il linguaggio che ricorda quello utilizzato spesso da Murgia per la sua famiglia queer e i figli d'anima, anime salve.

Il grido di Saviano

Il grido di Roberto Saviano che ha riassunto le battaglie di questi anni, gli attacchi, «il vomito», «non c'è sproporzione tra un intellettuale che ha solo le sue idee e il potere», la solitudine e la possibilità, nonostante tutto, di non essere soli. «Non stare da solo», gli ripeteva Michela. Il dolore e la solitudine era la strada per arrivare a essere insieme, e almeno un poco felici.

Per salutare Michela Murgia, ieri, c’era una folla addolorata, per il rimpianto, per la scomparsa prematura di una donna giovane, che aveva vissuto sì dieci vite, come aveva detto lei stessa, ma ne avrebbe potuto vivere altre cento, come ha dimostrato Chiara Valerio con la sua orazione tutta al futuro: Michela Murgia oggi mangerà al Cambio, prenderà uova strapazzate, dirà se sono o non sono della giusta consistenza... Come è altre volte accaduto nella storia della Repubblica, i funerali di Michela Murgia sono stati una rivelazione.

Di una folla non anonima, un insieme di persone in cui era possibile riconoscere nome per nome, storia per storia, che aveva portato con sé i romanzi di Murgia, come una offerta laica, o anche semplicemente per cercare aria sotto il sole del pomeriggio romano. Un popolo, dunque.

Un popolo di cui si dubita l'esistenza, quasi sempre ignorata, se non negata, o addirittura dileggiata, nel dibattito pubblico. Un popolo, parola da strappare ai populisti che la usurpano e la tradiscono, ne fanno uno sgabello della loro vanità e del loro dominio.

Michela Murgia è stata una grande intellettuale popolare. Una profezia, che andrà raccolta sul piano civile e politico. Il libro della sua vita non è finito. Lo continueremo con te, bella, bellissima Michela, ciao.

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