La generazione dei baby boomer non è più giovane. Proprio la generazione che ha fatto una bandiera della giovinezza. Trovarsi ad avere vent’anni dal 1968 in poi dava l’impressione di avere il mondo in mano.

Non si parlava d’altro che dei giovani. Di come si vestivano, pensavano, amavano, fumavano i giovani. C’era nell’aria un senso di onnipotenza, di esplosione, di felicità che nemmeno le prodezze delle Brigate rosse riuscivano a offuscare. Ora quella generazione invecchia, è invecchiata.

E proprio nel momento in cui la vecchiaia sta diventando, è diventata, lunghissima. Scrive Lidia Ravera nel suo nuovo libro Age Pride (Einaudi, 115 pagine, 13 euro): «Nel 1960 gli italiani ultrasessantacinquenni erano il 9 per cento della popolazione, oggi sono il 23 per cento». Un terzo della popolazione è composto di quegli ex giovani lì.

Ecco perciò che i protagonisti di Porci con le ali, che Ravera scrisse venticinquenne nel 1976, a quattro mani con il poco più grande Marco Lombardo Radice e con enorme successo non solo in Italia, devono adesso vedersela con il declino fisico, la pensione, l’oscurità che cala sui vecchi (almeno quelli non “realizzati”, per dir così), il progressivo deserto che si crea intorno, man mano che amici, coniugi, parenti se ne vanno dove inevitabilmente tutti dovremo scomparire. Che si fa, come la mettiamo?

Una possibilità è quella, da molti praticata, di barare, calarsi l’età, ricorrere al chirurgo plastico. Ma, scrive Ravera: «La forma è effimera. Esserne schiave è avvilente». E parla al femminile. Perché l’invecchiamento si vive in modo leggermente diverso se si è uomini o se si è donne.

E ancora una volta alle donne va un pochino peggio. Non starò qui ad analizzare perché. L’aveva già spiegato precisamente Simone de Beauvoir nel saggio La terza età, mettendo in chiaro quanto invecchiare non sia solo un fenomeno biologico, ma anche culturale.

Insomma s’invecchia diversamente se si è ricchi o poveri, potenti o privi di potere, uomini o donne. Ravera riparte da qui e si avvia per un sentiero inesplorato: come attrezzarsi, oggi, per vivere un terzo tempo della propria vita non in perdita, e anzi scoprendovi motivi se non di entusiasmo, di gratificante pienezza (pur trovandosi dalla parte svantaggiata, ovvero essendo nate femmine)?

Lei alla domanda «che si fa?», risponde tirandosi su le maniche ed elaborando strategie. «Sto provando a contattare quegli oltre quattordici milioni di persone, gli oversessantacinquenni italiani, che mi stanno a cuore», dice. «Voglio invitarli a una festa. Quella dell’orgoglio di essere riusciti a diventare vecchi. E vecchi bene».

Perché questo è il punto, però: c’è una bella differenza fra invecchiare bene e invecchiare male. E non sempre dipende dalla volontà, intelligenza, lungimiranza, buona volontà di una persona.

Dipende da quella cosa imponderabile che si chiama destino. Ma Lidia di questo non vuol sentir parlare, come non sopporta certi «indecenti» processi consolatori che vanno sotto il nome di fede e spiritualità.

Invecchiare come processo di progressiva spiritualizzazione, che è il grande modello orientale – e non solo – di una volta, non le piace per niente. Come se si potesse diventare buoni a comando e soltanto perché non ti è rimasto un solo capello in testa!

Questo è un libro intitolato non a caso all’age pride: non è un libro per sconfitti, ma per vincenti a oltranza. Lidia scrive per «passare all’attacco», perché la sua vecchiaia non somigli a quella di sua madre (eppure sono fra le pagine più belle e toccanti quelle in cui descrive quelle in cui descrive il progressivo invecchiamento dei genitori e la loro scomparsa).

Una rassegnata conquista

Ma adesso occorre che io sia onesta fino in fondo. Ho molto amato il piglio battagliero di questo libro, la forza disperata di voler ribaltare una situazione per tanti versi non ribaltabile, l’onestà di mettere le carte in tavola e raccontarsi esattamente come si è: una guerriera, lei, anche contro i mulini a vento.

Anzi, tanto più mi piace quanto più trovo la battaglia improbabile, donchisciottesca. La mia personale risposta alla perdita inevitabile legata all’età che avanza (e parlo di perdita anche nel migliore dei casi) è molto più semplice ed esula dal sesso di appartenenza: il mio modo di attrezzarmi non è combattere, ma rassegnarmi.

Senza però vedere nella rassegnazione una posizione perdente, semmai una conquista. Perché io credo che con la vita (e con la morte) bisogna scendere a patti.

Del resto ho un’esperienza diversa da quella di Lidia che conosco da almeno trent’anni. Lei non cede, io sì. Lei corre non so quanti chilometri ogni giorno, io non riesco neppure a fare i quattro esercizi di ginnastica quotidiana che teoricamente mi sarei imposta.

E tutto l’orgoglio che posso riconoscere all’età è quello di essere riuscita a diventare migliore rispetto a ciò che ero da giovane.

«Ho sempre avuto il terrore di invecchiare», dice onestamente Ravera all’inizio del libro. Ecco, io mai. Anzi. Ingenuamente, da giovane, ero convinta che invecchiare volesse dire avvicinarsi a una forma di saggezza e quindi immaginavo l’avanzata nel Ttempo come un processo auspicabile.

A quarant’anni ero così curiosa di indagare la vecchiaia, sicura di trovarvi chissà quali risposte, che ho scritto un libro perentorio, Vecchi, rivendicando fin dal titolo il valore di una parola che agli altri faceva paura.

Per realizzarlo mi sono messa alla ricerca delle vecchiaie più difficili. Sono andata in giro per case di riposo e sanatori vari, imbattendomi in storie e vicende di lutti e abbandoni così tristi, da farmi disperare di portare a termine il mio racconto.

Tutti quelli che incontravo odiavano la loro condizione, detestavano essere vecchi, cioè non poter contare sul futuro. E alla fine, per consolarmi, ho inventato un personaggio di vecchia che assomigliava alla mia intima aspirazione: una donna superiore, che nella vecchiaia era riuscita finalmente a raggiungere ciò che aveva sempre desiderato essere: una persona indipendente e spiritualmente libera, in attesa serena della morte.

Una forma di age pride al femminile anche quello, a pensarci bene. E adesso che non ho più quarant’anni da diverso tempo e pur non passandomela per niente male, mi sento paradossalmente più vicina ai tanti disperati che mi era capitato d’incontrare nel lavoro preparatorio di quel libro, piuttosto che alla fantastica vecchia dei miei sogni.

Nel senso che ho toccato con mano che invecchiare significa perdere certezze e persone amate e insieme assistere allo spiacevole fenomeno di un tempo che si restringe togliendo respiro a qualsiasi progetto a “lunga scadenza”.

«Voglio solo vivere»

Detto questo sottoscrivo in pieno il decalogo rivendicativo che Ravera infila più o meno a metà del suo libro e in cui pretende considerazione politica e sociale per una categoria di cittadine e cittadini cosiddetti anziani (tanti come fin qui non erano mai stati) che hanno pieno diritto a riconoscimento, sostegno, rispetto, visibilità, possibilità di lavorare, se lo desiderano, anche oltre la pensione.

Perché poi, al di là di tutto, quello che conta davvero, a qualsiasi età, è la qualità della vita. A un certo punto di Age Pride l’autrice racconta un episodio commovente.

Sta camminando con un’amica per viale Trastevere, a Roma, e quest’amica è molto malata, di cancro, ma chiacchierano come se niente fosse e Lidia, presa dalle sue ossessioni sulla perdita della bellezza, la scomparsa dei corteggiamenti maschili e gli altri rituali cui le donne che sono state belle da giovani non si rassegnano facilmente, non si rende conto del crescente imbarazzo dell’altra.

Che a un certo punto non ne può più. Si ferma in mezzo al marciapiede, la guarda con severità ed esplode: «A me non frega proprio niente di quello che stai dicendo. Io voglio soltanto vivere».

È una grande lezione, da opporre all’angoscia che viene quando si contempla tutto ciò che si perde allontanandosi dalla giovinezza e il poco (o il tanto a volte) che si guadagna. Il valore è comunque la vita, e conviene sempre collaborare (e qui ha davvero ragione Ravera) perché sia la migliore possibile.

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