La voce di Ghali che canta L’italiano a Sanremo deve essere risuonata nelle orecchie di ogni italoamericano che è cresciuto con questa canzone pensando: “Anch’io sono un vero italiano”. Per me risuona ancora.

Qual è la differenza tra Ghali, nato in Italia da genitori immigrati, e tutti noi italiani e italiane della diaspora, cresciuti negli Stati Uniti, in Canada, in Australia o in Argentina da genitori italiani? Quando Ghali canta, in Cara Italia, «Sei la mia dolce metà», non rappresenta lo stesso sentimento che tanti di noi abbiamo vissuto per tutta la vita, con un piede nel paese natale ma un altro nella patria ancestrale (a volte nemmeno così distante)?

Negli ultimi anni si è assistito a una continua contestazione nei confronti delle popolazioni migranti in Italia. Già nel 2006 quando frequentavo l’università in Italia i nostri professori biasimavano i migranti per la mancanza del lavoro. Non potevano immaginare come una persona potesse sognare una vita migliore anche senza una garanzia di lavoro. Ma questa è anche la storia dell’emigrazione italiana: a volte la speranza è altrove e bisogna partire per inseguirla.

Emigrare

Mulberry Street a Litte Italy, New York, nel 1900 (foto ANSA)

Mio padre, Filippo Milio, emigrò negli Stati Uniti nel 1971, tra gli ultimi a lasciare l’Italia prima che diventasse ufficialmente una meta migratoria nel 1973. Questo fu l’anno in cui per la prima volta arrivarono in Italia più immigrati di quanti italiani andassero via.

Da bambino, papà faceva parte della prima generazione ad avere l’istruzione obbligatoria fino a 14 anni dopodiché iniziò a lavorare con le imprese che stavano costruendo autostrade da Catania a Messina. È stato addestrato a guidare un bulldozer e guadagnava un buono stipendio, contribuendo alle finanze della sua famiglia.

Per questo, quando si presentò la possibilità di venire negli Stati Uniti, non era convinto dell’idea. Un cugino venuto in Italia però, col look alla Fonzie e le sigarette Marlboro arrotolate nella manica della maglietta, lo convinse che trasferirsi negli Stati Uniti non sarebbe stato poi così terribile. Quella promessa si è rivelata, inizialmente, un inganno: per diversi anni papà non trovava una sistemazione soddisfacente. È stato discriminato perché era un greasy guinea. Un wop.

Anche gli italoamericani più affermati lo disprezzavano perché era siciliano, appena arrivato, e non aveva la minima idea di come andassero le cose. Non sapeva che, quando il caposquadra italiano ti diceva «Devi comprarmi il caffè e il pranzo», rifiutarsi di farlo all’epoca ti poteva costare il lavoro.

Dopo un paio d’anni non ce la faceva più e voleva tornare in Italia, ma a quel punto aveva già incontrato mamma e così ha deciso di farsi comunque una vita qui negli Stati Uniti. Hanno iniziato ad acquistare e gestire immobili, e il resto è storia. Insieme hanno vissuto il famoso sogno americano. Hanno faticato: papà non conosceva la lingua, e quindi mamma si occupava delle carte e lui di costruzione, ristrutturazione e gestione delle proprietà. Col tempo hanno trovato il successo, ma il punto più importante nel raccontare questa storia è che, da immigrato, mio padre conosceva le difficoltà che aveva di fronte e ha scelto – ha lavorato – per superarle, cosicché la sua famiglia avesse tutte le cose migliori della vita.

Una vita migliore

E allora, dall’altro lato, come potrebbe l’Italia non offrire le stesse opportunità alla sua popolazione immigrata? Avete dimenticato quanti italiani se ne sono andati dalla fine dell’Ottocento a oggi? Milioni – 29.036.000 tra il 1861 e il 1985 per essere precisi – di italiani partirono per iniziare una nuova vita in paesi di tutto il mondo.
Hanno lasciato l’Italia sognando una vita migliore e molti di loro si sono dedicati non solo a migliorare la loro vita, ma anche a contribuire alla loro comunità, alla loro nuova nazione.

Ecco, quando Ghali canta «Tu sogni l’America, io l’Italia, la nuova Italia», non esprime lo stesso obiettivo? È chiaro che Ghali, come tanti immigrati e discendenti di immigrati in Italia, è orgoglioso di considerarsi italiano, di portare valori italiani, forse anche più di molti giovani che la cittadinanza italiana ce l’hanno dalla nascita. Non posso fare a meno di chiedermi: cos’altro volete da una persona giovane? Cos’è più importante: la cultura o il sangue?

A New York City, lungo Mulberry Street, è appeso il testo di Volare, canzone vincitrice dell’ottavo Festival di Sanremo nel 1958. La zona, popolata da immigrati italiani dall’inizio del XX secolo fino agli anni Settanta, sembra oggi un luna park di ristoranti e negozi di souvenir.

Una volta all’anno c’è la festa di San Gennaro che riporta in zona turisti e italoamericani con la stessa prospettiva, la stessa speranza: tornano per capire cosa significasse essere italiani a New York quando esisteva una vera comunità di immigrati.

Gli stereotipi

Ma per me l’esperienza è diversa. Come italoamericana di seconda generazione, io sono per gli Stati Uniti, in fondo, quello che Ghali è per l’Italia. Dobbiamo raccordare la cultura dei nostri genitori, e la loro esperienza del mondo, a quella che viviamo ogni giorno. Sono, siamo, continuamente in mezzo.

In effetti, a quell’eredità ho dedicato la mia vita. In diverse università americane, ci sono discipline dedicate allo studio della diaspora italiana e dell’esperienza italoamericana, discipline i cui ricercatori – tra molti altri studi interessanti – stanno tentando di dare un senso agli stereotipi che affliggono il nostro popolo ormai da oltre un secolo, e ai modi in cui la comunità è stata ravvivata e rinnovata dal flusso costante di migranti.

Dunque, è difficile vagliare gli stereotipi che gli stessi italoamericani hanno perpetuato e le mie esperienze, che sembrano essere state diluite o rese meno significative dai media. Non solo dobbiamo fare i conti con gli stereotipi di vecchia data creati per esempio da Il Padrino, ma ora, con i social media, l’ignoranza è velata dall’idea che tali stereotipi siano ormai solo battute comiche. Gli italoamericani che hanno accumulato follower basandosi sulle ombre di quella che era una volta l’esperienza migratoria dall’Italia avranno magari un po’ di sangue italiano, ma difficilmente c’è in loro una sola goccia di educazione o cultura italiana.

Dai tempi di Dante fino al Rinascimento, poeti e pensatori italiani hanno dibattuto sulla questione della lingua. Cosa significava scrivere in volgare rispetto al latino accademico che era stato per secoli la lingua ufficiale della letteratura e del governo?

Le implicazioni della scelta del volgare – in sostanza la scelta dell’italiano – furono un costante punto di contesa per questi intellettuali. Ci penso spesso oggi dal punto di vista dell’immigrazione. Conoscere una lingua significa immergersi nella cultura, tenere conto dei pensieri del suo popolo e delle sue convinzioni e sentirsi comodi nel confronto.

Mi chiedo: cosa perdono gli italoamericani quando non riescono a insegnare la lingua alla prossima generazione? Questi stessi italoamericani che magari non parleranno mai italiano possono diventare cittadini italiani e godere di ogni beneficio della cittadinanza, mentre gli immigrati nati all’estero e anche quelli della seconda generazione nati in Italia, che conducono la loro vita in lingua italiana, che ovviamente vivono e sono istruiti in Italia, devono combattere per il beneficio della cittadinanza.

Vita di mezzo

Sono una outsider, è vero. Ma non possiamo negare la potenza di Ghali che canta «Io sono un italiano, un italiano vero» anche per noi, membri della diaspora italiana. Quella originale di Cutugno è una canzone che sentivamo in macchina andando a scuola, la domenica andando a casa di nonna; è stata rifatta da Angelo Venuto nei primi anni Duemila e risuonava per le strade del Bronx quando l’Italia vinse i Mondiali del 2006. Come facciamo a dare un senso a una vita di mezzo?

Ma soprattutto tu italiano, tu italiana, conoscendo la storia (ma forse, ecco il punto, te la sei dimenticata) della tua stessa gente, come fai a negare ancora una speranza concreta agli immigrati che arrivano sulle tue coste?

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