Pare che nei prossimi tempi ci toccherà camminare un bel po’, senza neppure il conforto di sapere dove si va. Il passo non sarà quello svagato e sghembo del flâneur dei bei tempi andati, gravatə come siamo da un affanno che sa molto di fuga. Eppure, un ritmo sostenuto, renitente ai languori della sosta e sordo ai richiami serpentini della vita stanziale, pare oggi sia l’unico rimedio per assicurarci un poco di libertà.

L’urgenza più pressante, infatti, è sfuggire alla presa di un tiranno impalpabile e indiscreto, saturo di una sostanza eterea, ambigua, vaporosa, che ci narcotizza, estenua, assoggetta. Un regime che, per di più, fa tutto questo col nostro permesso complice e compiaciuto. Perché, di contro al dominio brutale e violento delle tirannie tradizionali, la sua signoria ci piace, ci accomoda, ci illude di essere più potenti e più capaci di controllare il corso della natura.

Questa potentissima Signora è la tecnica, che da mezzo si è fatta fine, là dove ogni nostra azione, o persino volizione, necessita della sua ubiqua assistenza: acquistiamo con un click, ci informiamo su TikTok, leggiamo sullo smartphone, ci incontriamo in videochiamata, mentre sviluppiamo intelligenze artificiali che certo un po’ ci inquietano, eppure ci conquistano quando precorrono i nostri desideri selezionando il brano più appropriato e redigendo articoli e saggi più robusti e seducenti dei nostri.

Nomadismo coatto

In questo nomadismo coatto, però, non ci si figuri nelle vesti liriche di novelli Ulisse: l’arte della fuga che dobbiamo affinare non ci promette alcun ritorno in terra natia né il ripristino di una vita serena. All’opposto, esige un distacco affettivo da tutto quanto ci appartiene, acquattati in luoghi inospitali dove non arrivano cavi né segnali.

Questa sembra essere la via d’uscita suggerita da Umberto Galimberti nel suo recente libro L’etica del viandante (Feltrinelli 2023), che raschia la patina romantica dei pellegrinaggi medievali e dissipa l’aura esotica dei viaggi di relax. Il viandante d’oggi non cerca terre promesse né visita luoghi, bensì rinuncia a ogni meta e guarda in faccia l’indecifrabilità del destino suo e di quello del mondo.

Prima però di seguire il viandante nel suo pellegrinare salvifico, sarà bene vedere cosa per Galimberti sia la tecnica. In breve, la scienza moderna, spiega l’autore, non nasce dall’osservazione neutrale e serafica del mondo, ma dal tentativo di asservirlo alla legge tutta umana della predazione e dello sfruttamento.

La scienza e la tecnologia, quindi, avrebbero dovuto servirci per ottenere il pieno dominio sulla natura, ma la brama per strumenti tanto raffinati ed efficaci ci ha preso la mano: da mezzo per intervenire sull’ambiente a certi scopi, la tecnica è scaduta in corsa agitata verso il perfezionamento del mezzo quale scopo a sé stesso – proprio come quando cambiamo lo smartphone senza neppure sapere il perché, persino a fronte di esborsi ragguardevoli, giustificati in cattiva coscienza da un paio di nuove funzioni, di cui non faremo mai uso.

La fine della storia

Per Galimberti, il danno è ben peggiore che l’ossessione per le app o la domotica, perché la tecnica ha posto fine alla storia. Questa, infatti, era il parto nobile della cultura giudaico-cristiana, che, dismessa la nozione greca di tempo ciclico, aveva legato il susseguirsi degli eventi alle nozioni di senso, finalità e destinazione: quel che contava non era il presente, troppo effimero, ma il futuro, in cui si sarebbe trovata la salvezza e quindi la vita eterna, insensibile alle bassezze del secolo.

Via via, però, la tecnica ha fatto prevalere il suo carattere “afinalistico”, per cui non conta più dove si va, ma l’attrezzatura con cui ci si equipaggia – proprio come se s’inerpicassimo per il Giro dei Giganti in Valle d’Aosta non per fare trekking ma per testare le virtù del nostro nuovo sportwatch.

Insomma, l’essere umano, a forza di rifinire la proprie conoscenza, è divenuto schiavo dei suoi sfavillanti risultati, e così ha smarrito d’un colpo il senso dell’esistenza e il concetto di destinazione ultima. Non sorprende, pertanto, lo scarso o nullo rispetto per l’ambiente, riserva di caccia fino a esaurimento scorte; né lo scadimento della verità a efficacia e della politica a funzione dell’economia, perché la tecnica «non conosce altra finalità che il suo autopotenziamento».

Se la diagnosi genera corruccio, Galimberti apre a una speranza; o meglio, «una necessità imposta per la sopravvivenza della specie»: l’etica del viandante, che sollecita una nuova trascendenza o, più correttamente, un trascendimento.

Occorre superare l’attuale condizione di esasperata tecnolatria mediante un’evoluzione culturale: rimuovere il nucleo forte dello scientismo moderno, l’antropocentrismo, e sviluppare una nuova dimensione di «fraternità estesa a tutti gli enti di natura, perché è in questa natura e non altrove che l’uomo può vivere».

Una vicenda antica

Ammetto di essere troppo avvinto dalle malie della tecnica per sentire l’urgenza del suo abbandono. Sarà per questo limitante condizionamento che nutro la convinzione secondo cui i mali denunciati da Galimberti siano ben più risalenti che le soglie dell’èra moderna. La verità come pura efficacia e la politica al servizio dell’interesse economico affettano da che mondo è mondo le società umane, le quali perlopiù hanno sempre sfruttato tutto quanto capitasse loro sotto mano.

Pertanto, benché L’etica del viandante costituisca l’affascinante compendio di una delle più notevoli teorie contemporanee sulla condizione umana dinanzi alla natura, temo non vi si possa trovare una risposta efficace alla devastante crisi ecologica in atto.

Questo perché c’è un vizio nella diagnosi – vizio legato a una concezione della scienza come riserva di bassezze, impermeabile allo scrupolo, serva dei suoi finanziatori (non importa quanto immorali), relativista per tornaconto, sempre e comunque atta a incipriarsi di neutralità per nascondere le sue vampate di dominio e rinforzare squilibri di potere.

Tutto questo senza dubbio orienta verso il caricaturale, proprio perché fa sembrare che l’essere umano, senza la tecnica e la scienza, possa avere un che di apprezzabile. Conclusione da purismo primigenio che un po’ sorprende.

Il rischio più serio, in tale ottica, è di lambire inconsapevolmente le posizioni di chi, ad esempio, condanna e criminalizza le tecniche di procreazione assistita perché violerebbero le leggi presunte immutabili della natura (posizione, beninteso, che Galimberti rigetta). Il problema, quindi, non sta nel mezzo che si rovescia in fine, a meno di non voler sostenere che la procreazione in vitro, tale e tanto è il suo fascino tentacolare, sostituirà presto la fecondazione naturale.

Anzi, attribuire alla tecnica ogni responsabilità, perché intimamente abitata da una frenesia di dominio, potrebbe offrire un comodo pretesto per chi ne fa uso a proprio vantaggio. Costoro potrebbero argomentare che il male radicale della tecnica soggioga e colonizza la loro nobile coscienza, costretta obtorto collo a perpetrare mali che pure ha in spregio.

Insomma, la vicenda delle catastrofi umane è più antica che non la parentesi aperta con la modernità – per quanto oggi gli effetti siano su scala incomparabilmente più ampia. E il pericolo è che persino il viandante possa trovare modo di combinare i suoi pasticci ovunque metta piede, sicché si dirà che sarebbe stato meglio se ne fosse rimasto a casa a giocare a Wanderer alla PlayStation.

© Riproduzione riservata