Percorrendo a ritroso le principali riforme che aprirono alle donne italiane una via formale per la piena cittadinanza, si arriva inevitabilmente al 2 giugno 1946, di cui oggi ricordiamo l’anniversario. L’estensione del suffragio anche al genere femminile è incastonata nel contesto turbolento dell’immediato dopoguerra. Le prime libere elezioni dopo la fuoriuscita dal fascismo erano necessarie a decidere il nuovo ordinamento istituzionale dello stato e la formazione di donne e di uomini che avrebbe dato vita alla futura costituzione. A questo passaggio decisivo, le donne erano (straordinariamente) chiamate a rispondere.

Il 24 aprile 1946, tra le pagine del settimanale satirico politico L’Uomo Qualunque, veniva pubblicato un manifesto rivolto propriamente “alle donne d’Italia”, il cui testo portava la firma di Ester Lombroso, candidata all’assemblea costituente. «In quest’ora solenne si domanda la collaborazione della donna, del suo buon senso, del suo disinteresse, del suo istintivo amore alla giustizia, all’ordine alla felicità (…) Che cosa si vuole dalla donna? Fede, equilibrio, previdenza, umanità, comprensione: qualità istintive in noi».

La casa di tutti

Il discorso fa la spola tra una retorica cristallizzante che riduce la donna a una serie di stereotipi, essenzializzata nelle sue qualità, e alcuni rapidi movimenti che la descrivono invece protagonista, capace di entrare nella lotta politica con «idee chiare e proprie, armata del coraggio di farle valere».

Dieci anni dopo, a Ronco, un piccolo paese del Canavese, fece scalpore la presenza di una lista di sole donne candidate per le elezioni comunali. È l’organo dell’Unione donne italiane, la rivista Noi donne, a scriverne utilizzando una retorica non molto distante da quella riscontrata nell’appello di Lombroso. Una delle candidate, Lucia Costa, raccontava che alla base della scelta ambiziosa di “fare da sé” aveva agito un’unica parola d’ordine: «per il benessere della comunità, per provvedere ai bisogni di tutti». L’incipit dell’articolo parla chiaro: «Se sappiamo amministrare la nostra casa perché non dovremmo saper amministrare la casa di tutti che è il comune?». 

In questo caso a prevalere è l’immagine della donna economa amministratrice, la sua “destinazione” casalinga a riflettersi sulla disposizione caratteriale e l’attitudine politica.

«Il 27 maggio, per la sesta volta dopo la conquista del voto, le donne parteciperanno alle elezioni; e oltre dieci anni di vita democratica hanno creato in loro una consapevolezza sempre maggiore. Non sono più ormai una massa elettorale disorientata e incerta (…). Ora tutte le donne – non soltanto più quelle che costituiscono una coraggiosa avanguardia, che militano nei partiti e nelle associazioni democratiche – hanno imparato a legare la politica alla vita quotidiana, il bilancio del comune (e dello stato) al conto della spesa, le elezioni amministrative alla costruzione di case e scuole, all’organizzazione dei servizi sociali».

Diritti civili

L’inizio degli anni Settanta segna un decisivo scarto teorico sulla questione dei diritti civili per le donne. Sintomatiche ne sono le parole lapidarie di Carla Lonzi, pubblicate il 1970 sul manifesto del gruppo romano Rivolta femminile.

«L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli».

Il movimento strappava violentemente l’illusione che l’uguaglianza formale delle donne – la loro inclusione a pieno diritto nell’ordine sociale esistente – potesse bastare a emanciparle concretamente. Al “semplice” riconoscimento di una piena cittadinanza femminile, il movimento opponeva il rifiuto più profondo di un intero modello dominante e la volontà di esprimere un “proprio senso dell’esistenza”. Questa espressione di femminismo rivendicava una cultura della differenza dai confini non confondibili: «La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicoanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica […] Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teorizzato l’inferiorità della donna».

Il referendum sul divorzio

Quattro anni dopo, nel 1974, al referendum per l’abrogazione della legge che garantiva il divorzio (n.898), la Fortuna-Baslini, la vittoria del no sventò la possibilità che venisse meno un’importante conquista sociale e culturale per l’Italia, garantita già dal 1970. Siamo nel pieno di un processo che impattò soprattutto con l’istituto della famiglia, gli equilibri tra i ruoli e il “destino” della donna all’interno di questa, e in cui il movimento giocava un ruolo fondamentale. Nel maggio 1975 fu la volta del diritto di famiglia, modificato (legge 151) attraverso l’affermazione della parità tra i coniugi nell’esercizio della potestà e il riconoscimento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio; il 22 marzo 1978 fu istituita la legge 194 che depenalizzava l’aborto garantendo che fosse libero, gratuito e assistito; nell’agosto 1981 si decretò l’abolizione del delitto d’onore (legge 442).

La catena degli avanzamenti legislativi ci dà una misura dell’irriverenza del manifesto diffuso da Rivolta femminile. Nonostante l’importanza dei benefici formali ottenuti, le frange più radicali del movimento mantenevano una sfiducia nei confronti di ciò che il “sistema” istituzionale sceglieva di concedere e garantire. Un rifiuto nei confronti dell’arena istituzionale, scrive Marica Tolomelli, «atteggiamento voluto e consapevole poiché il movimento aspirava a far sì che le pratiche politiche si radicassero nei gesti della vita quotidiana, le modalità della politica rappresentativa erano in maniera quasi automatica estranee all’orizzonte dell’agency femminista».

Il punto di partenza

Ma guardando ancora a ritroso nella lunga durata di questo processo, troviamo un documento che segna una discontinuità rispetto a questi immaginari. La lettura Del voto politico alle donne, pubblicata sul periodico La donna il 30 marzo 1877, porta la firma di una protagonista del movimento suffragista ottocentesco italiano, Anna Maria Mozzoni. La giornalista portava al cospetto del parlamento liberale una petizione in cui si chiedeva che le donne italiane fossero considerate, esclusivamente, sulla base dei «soli rapporti con lo stato», ben oltre «le divagazioni accademica sull’entità e modalità della loro natura», oltre le considerazioni sulla loro “missione”: «(Il parlamento) voglia considerarci nei nostri soli rapporti con lo stato, riguardarci per quello che siamo veramente: cittadine, contribuenti e capaci, epperò non passibili, davanti al diritto di voto, che di quelle limitazioni che sono o verranno sancite per gli altri elettori».

Lo scritto contiene una chiara rivendicazione politica contro «la legale presunzione della nostra incapacità» sulla base della quale il diritto di voto era negato e di conseguenza ignorati gli interessi e i bisogni specifici delle donne. Ciò che è importante sottolineare di questo discorso, più della richiesta di uguaglianza formale e di inclusione a pieno diritto (quello degli uomini), è l’attenzione proprio per quelle necessità e quegli interessi specifici della donna, perché si lega con un filo rosso al tema della differenza eletto poi a paradigma politico negli anni Settanta.

Tornare al 2 giugno del 1946 è fondamentale perché rappresenta uno snodo inevitabile a partire dal quale si crearono le condizioni affinché le donne potessero poi dire “no” e contare davvero, come fecero nel 1974 a difesa del divorzio o nel 1981 in occasione del referendum abrogativo della legge 194. La storia delle acquisizioni legislative che si dispiega per tappe lungo i decenni ’70-’80 formalmente trova lì la sua origine, nonostante le torsioni teoriche, la sfida rivolta al piano dell’istituzionale, la volontà di andare più a fondo nei meccanismi sotterranei del potere.

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