L’età moderna è iniziata alla 9.50 di mattina del 1° novembre del 1755. È il momento in cui Lisbona viene rasa al suolo da un terremoto. Una delle più importanti città dell’occidente, capitale di un impero che oggi definiremmo globale, con 275mila abitanti quarta metropoli più abitata di allora dopo Londra, Parigi e Napoli, porto evolutissimo capolinea di una rete commerciale che avvolgeva il mondo: «Dire Lisbona distrutta», scriverà Walter Benjamin negli anni Trenta del Novecento, «era, per quell’epoca, un po’ come dire oggi, per noi, Chicago o Londra distrutte».

Il terremoto di Lisbona fu il primo “evento mediatico globale”. Sia perché il sisma fu così forte che provocò effetti geotermici in tutta Europa e non solo (due settimane prima, sul lago di Locarno cadde una pioggia rosso sangue provocata dai vapori del magma sottostante; sette giorni dopo, a Cadice, la terra ribollì di insetti, larve e vermi che emergevano in superficie…), sia perché mediatizzato: la sua notizia corse in tutto il continente, spinta dal nascente sistema dei giornali e delle gazzette, a una velocità che oggi ci appare incredibilmente lenta ma che per l’epoca era vertiginosa.

Il 4 novembre la notizia è arrivata a Madrid; il 23 novembre a Parigi; il 4 dicembre a Londra; il 6 dicembre a Torino; il 9 dicembre a Napoli. Lisbona distrutta è stata la prima breaking news. Compulsare volantini e gazzette, da parte della classe colta dell’epoca, fu l’antesignano del doomscrolling.

I filosofi e il terremoto

Soprattutto il terremoto di Lisbona ossessionò intellettuali, filosofi, artisti e scrittori per decenni, anzi per secoli. È al centro delle opere e delle riflessioni di Voltaire (col Candido), Diderot (Jacques il fatalista), Rousseau, sarà il fondamento (anzi: la mancanza di fondamento.

Quando vide la terra letteralmente mancare sotto i piedi, cercò una base più solida per il pensiero) di tutta la filosofia di Kant (che non a caso nasce come geografo), fino a Benjamin (che al tema dedicò una puntata di una trasmissione radio) o Elias Canetti.

Fino a quando, insomma, un’altra catastrofe venne tragicamente a sostituire Lisbona come limite estremo, insostenibile manifestazione del male: come dice la filosofa Susan Neiman, «il diciottesimo secolo ha usato la parola Lisbona come noi oggi usiamo la parola Auschwitz».

Qui e ora

Ecco il punto: la catastrofe è la modernità. Sono due concetti impossibile da dividere, due fili legati in un nodo indissolubile. Proprio con Lisbona la catastrofe segna l’atto di nascita del moderno, data simbolo ben più pregnante di altre legate a rivoluzioni o scoperte.

Come dice bene Andrea Tagliapietra in Filosofie della catastrofe (Raffaello Cortina editore), un volume in cui oltre alla sua ricca introduzione sono raccolti i testi sul terremoto di Lisbona di Voltaire, Rousseau e Kant, “moderno” ha fin dall’etimologia il suo paradosso: «Nelle parole “modernità” e “moderno” riecheggia l’etimo dell’avverbio temporale latino modo, ovvero “ora”, “adesso” e, al limite, “poco fa”. Nella modernità l’ora, l’adesso e il poco fa diventano decisivi, stabilendo il punto di partenza necessario per dirimere le questioni capitali del fare, dell’agire, del credere e del sapere».

Vuol dire che “il momento attuale”, e cioè l’esperienza, la vita, è il punto di osservazione ineludibile sulle cose e sua misura. «Con la modernità l’esperienza diventa attiva partecipazione alla costruzione del sapere, a partire dall’incrocio in cui il punto di vista incontra l’evento».

Non c’è più un punto di vista esterno, superiore e trascendente, insomma divino. La realtà non è assoluta, la realtà esiste solo quando gli eventi cadono sotto lo sguardo del soggetto umano. E quindi, di conseguenza, la realtà diventa anche mutevole, discutibile, “rivoluzionabile”, cambia come cambia l’esperienza che facciamo degli accadimenti. Cambia come cambiano i regimi politici che si credevano eterni.

Dalla punizione al rischio

Il terremoto di Lisbona è l’ultima volta in cui si protestò seriamente per l’ingiustizia divina: da lì in poi il male nel mondo non sarà più questione che riguarda Dio (se non per i teologi). La responsabilità della nostra sofferenza sarà solo degli altri uomini, del caso, o di un ambiente naturale freddo e ostile a cui siamo indifferenti.

Dopo Lisbona sorge «un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe, di responsabilità e di rischio. Si smetterà di risalire ogni volta alle logiche apocalittiche del diluvio universale e della fine del mondo e si lasceranno parlare i sistemi descrittivi e gli apparati empirici della geologia e delle scienze della terra, si svilupperanno considerazioni sulle città e la loro urbanistica, sulle forme dell’abitare e del vivere civile, sull’igiene e sulla politica, sulla ricchezza e sulla povertà delle nazioni».

Modernità come età del rischio, del calcolo del rischio, e quindi anche del Calcolo della paura, come recita il titolo del breve ma ficcante libro (Einaudi, nella collana dei Quanti) in cui Marco Filoni, ripercorrendo l’idea filosofica di paura, ha raccontato il nostro quotidiano negoziare con la paura – in particolare durante i giorni della pandemia e dei decreti sulle misure sanitarie.

Il potere delle immagini

Foto APVadim Ghirda

Il terremoto di Lisbona fu quindi il momento in cui il male e la sofferenza smisero di essere punizione divina, restituzione di una colpa e infrazione del peccato, ma responsabilità del caso o degli uomini, oggetto di calcolo e di osservazione.

In un tempo senza Dio non si può più distogliere lo sguardo dal disastro, lasciare “che ci pensi lui”: non ricade più sotto la sua giurisdizione.

Quindi la catastrofe va osservata, va guardata: Lisbona è il primo disastro di cui abbiamo un’enorme testimonianza visiva (sotto forma di stampe). La catastrofe diventa anche momento estetico, cioè che ha a che fare con la percezione, con lo sguardo: da lì in poi irrompe il grande tema pittorico del “naufragio con spettatore”, le scene sublimi di disastri o di paesaggi naturali smisurati in cui, piccolino, in un angolo, c’è un osservatore umano, un modo per restituire una misura umana a un mondo, quello della modernità, enorme e imprendibile. Per provare in qualche modo a dominarlo.

Ma ogni rappresentazione porta con sé la dimensione, potente e terribile, dell’emozione, dello choc, del coinvolgimento che rompe la catena del pensiero razionale.

L’immagine della catastrofe può avere anche un che di «performante, ginnico, mobilitante e addestrativo» per usare le parole di Tagliapietra. Oggi poi c’è il rischio, temo, che quando le immagini della catastrofe diventano un flusso ininterrotto, inarrestabile, lo choc si ribalti nel suo opposto: l’indifferenza. Che l’orrore diventi ordinaria amministrazione. Che la compassione scolori in una generica pietà per le cose del mondo, e non sia più la scandalosa sofferenza del singolo, del fratello umano che mi chiama a agire e reagire. 

Lisbona come Kiev chiamano, oggi come allora, a uno sforzo: non far evaporare il dolore dietro discorsi astratti e calcoli ipocriti, come osservatori distanti al margine della scena. Perché altrimenti, dopo Dio, a sparire sarà anche l’umano.

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