L’8 febbraio 2021 è morto a Parigi, a ottantanove anni, l’uomo che ha contribuito più di tutti a diffondere in occidente la conoscenza del più grande libro che sia mai stato scritto: il Mahabharata, o “Mega Bharateide”, una sorta di incrocio indiano tra i testi sacri della Bibbia e del Corano e quelli profani di Omero e Shakespeare, ma di lunghezza maggiore di tutte queste opere messe insieme. In una parola, il libro che l’umanità dovrebbe assolutamente salvare, se fosse costretta a scegliere di salvarne uno solo.

Quell’uomo si chiamava Jean-Claude Carrière, e già il suo cognome lasciava intendere che di carriere ne aveva percorse molte. Come scenografo aveva lavorato per i migliori registi, da Luis Buñuel per Bella di giorno (1967) a Milos Forman per Valmont (1989), meritando l’oscar alla carriera nel 2015. Come pensatore aveva dialogato con i personaggi più disparati, dal Dalai Lama in La compassione e la purezza (1994) a Umberto Eco in Non sperate di sbarazzarvi dei libri (2009). E come autore aveva sfornato una serie impressionante di opere letterarie, teatrali e saggistiche.

Ma il suo lavoro sul Mahabharata costituisce un unicum di divulgazione culturale, per il coraggioso e vincente tentativo di portare a conoscenza del pubblico occidentale il massimo capolavoro letterario del mondo orientale, e non solo.

Gli adattamenti

L’occasione venne dall’incontro di Carrière con Peter Brook, considerato il più grande regista teatrale dal dopoguerra a oggi. A metà degli anni Settanta i due iniziarono una duratura collaborazione sulle scene, e a una conferenza dell’indologo Philippe Lavastine nel 1974 udirono casualmente parlare del Mahabharata, che subito apparve loro come un ottimo soggetto.

Carrière e Brook fecero insieme una serie di ricerche in India tra il 1982 e il 1985, descritte dal primo nei quaderni di viaggio Alla ricerca del Mahabharata (1997). I due assistettero nei luoghi più disparati, dalle città ai villaggi, a svariate rappresentazioni di questa grande epica, e scoprirono quanto essa continuasse a permeare la religione, la filosofia e la cultura indiane, adattandosi in maniera camaleontica alle varie tradizioni geografiche e linguistiche. In particolare, la versione canonica meridionale arriva a quasi 100.000 stanze, e quella canonica settentrionale a circa 80.000: in ogni caso, si tratta di un libro lungo tre o quattro volte l’Iliade, l’Odissea e la Bibbia messe insieme!

Lo sceneggiatore e il regista distillarono da quest’opera sterminata un’elefantiaca rappresentazione teatrale lunga nove ore, più altre due di intervalli, che debuttò in una cava nei pressi di Avignone il 7 luglio 1985, e per quattro anni girò il mondo francofono e anglofono, recitata nelle due lingue. Di solito lo spettacolo era suddiviso in tre serate consecutive, ma a volte veniva offerto in un unico tour de force che durava dal tramonto all’alba, chiamato appunto La notte del Mahabharata.

Nel 1989, conclusosi il tour, la rappresentazione teatrale divenne una serie televisiva della durata di poco più di cinque ore (312 minuti), disponibile anche in dvd, e fu poi ulteriormente condensata in un film di circa tre ore. Vent’anni dopo, nel 2019, è arrivata l’ultima metamorfosi: un fumetto di Jean-Marie Michaud, basato sui testi di Carrière e tradotto anche in italiano da L’Ippocampo, che costituisce forse il percorso più agevolato e gustoso per iniziare a penetrare nel mondo dell’epopea indiana.

Naturalmente, nessuno di questi adattamenti riproduce esattamente l’opera originale, che è per sua natura intraducibile e incomprimibile, come accade per tutti i poemi. Ma le varie traduzioni e compressioni raggiungono diversi gradi di approssimazione, il minimo dei quali è l’adattamento di una battuta di Woody Allen: «Dopo un corso di lettura veloce, ho letto il Mahabharata in venti minuti: parla dell’India».

Più che una boutade, questo è però un primo saldo passo verso la comprensione del poema. Bharata era infatti il nome di un’antica tribù indiana, ma è anche il nome ufficiale della moderna Repubblica indiana: la storia narrata non è dunque soltanto una favola, ma affonda le proprie radici nella Storia, e intende raccontare le origini mitologiche dell’India stessa. Una traduzione fedele del titolo potrebbe essere La grande India, o Il grande racconto dell’India, e non a caso l’opera viene considerata il Quinto Veda, da affiancare ai quattro sacri Veda che costituiscono la Bibbia dell’induismo.

Scatole cinesi

I cento canti del testo originario erano suddivisi in diciotto cantiche, più un’appendice. Le venti scene delle riduzioni teatrale e televisiva di Carrière e Brook sono invece suddivise in tre parti: “Il gioco di dadi”, “L’esilio nella foresta” e “La guerra”. A sua volta, il fumetto di parti ne ha cinque, più un breve epilogo: “La nebbia delle origini”, “Dall’infanzia dei principi al regno in eredità”, “L’esilio”, “La scelta delle armi” e “L’amara vittoria”.

Si delinea così fin dai titoli l’ossatura della storia, il cui inizio è estremamente moderno, e precorre lo spirito di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. L’autore dell’opera, un saggio di nome Vyasa, non si limita infatti a raccontarla, ma appare al suo interno come protagonista, insieme ai suoi due collaboratori: lo scriba Ganesh, popolare divinità a testa d’elefante, rappresentata in innumerevoli templi indiani e indocinesi, e l’uditore Sauti, un ragazzo al quale Vyasa racconta la storia, e che a sua volta diventerà il narratore del Mahabharata, un’opera che si rivela dunque essere un gioco di scatole cinesi (o meglio, indiane).

A intervalli Vyasa manifesta apertamente i suoi dubbi su come continuare la propria storia, conscio del fatto che essa si fa mentre egli la racconta. D’altronde, una delle credenze dell’induismo è appunto che gli avvenimenti del mondo in una data era cosmica non siano altro che sogni sognati da Vishnu, in un intervallo fra due suoi stati di veglia. Non a caso, Vyasa si attribuisce nel poema origini fantastiche, e a Vyasa si attribuiscono in India origini divine, arrivando a considerarlo una manifestazione di Vishnu stesso, oltre che l’autore di tutti i Veda, e non solo del Quinto.

Vyasa ebbe due figli da due principesse diverse: uno cieco e l’altro di pelle chiara. Il primo ebbe cento figli da un’unica moglie, e il secondo cinque figli da due mogli diverse: la vicenda principale del Mahabharata narra la saga di queste due famiglie di cugini, chiamate rispettivamente Kaurava e Pandava. I cento Kaurava nacquero tutti dalla divisione di un unico enorme ovulo, che la madre partorì dopo una gravidanza durata due anni. I cinque Pandava, invece, non erano in realtà figli biologici del padre, perché su di lui pendeva una maledizione per aver ucciso due gazzelle che si stavano accoppiando: se si fosse a sua volta accoppiato con una donna, sarebbe morto pure lui.

Le due madri concepirono dunque i cinque Pandava con l’aiuto di varie divinità: uno, in particolare, era figlio di Indra, re degli dèi, e si chiamava Arjuna. In precedenza sua madre, prima del matrimonio, aveva già partorito un figlio del Sole, di nome Karna. Quest’ultimo non apparteneva dunque a nessuna delle due famiglie dei Pandava e dei Kaurava, ma nella guerra che li oppose si schierò con i secondi, pur essendo un fratellastro dei primi. Il culmine dell’epopea sarà il duello tra Arjuna e Karna, una sorta di versione indiana del duello greco tra Achille e Ettore, con una conclusione analoga.

Dèi di parte 

Anche in India, come dovunque, gli dèi sono parziali e tutt’altro che equanimi. Nel Mahabharata uno di essi si schiera apertamente dalla parte dei Pandava, e sarà determinante per la loro vittoria finale: si tratta nientemeno che di Krishna, uno degli avatar di Vishnu, che al momento della composizione del poema non era però ancora assurto al suo moderno rango di divinità maggiore. Anzi, era ancora una figura semidivina, e fu proprio il Mahabharata a canonizzarlo, diventando una sorta di suo Vangelo: i due canti finali, costituenti un’appendice di 16.000 stanze alle diciotto cantiche del Mahabharata vero e proprio, costituiscono infatti la storia della sua infanzia, chiamata Harivamsa, o “Genealogia di Hari (Krishna)”, e attribuita anch’essa a Vyasa.

Ma il vero Vangelo induista è contenuto in diciotto canti della Sesta Cantica del Mahabharata, e narra un episodio che avviene prima dell’inizio della grande guerra fra i Pandava e i Kaurava. Krishna funge da auriga ad Arjuna, ma quando i due arrivano sul campo di battaglia quest’ultimo viene assalito da un forte dubbio: vede l’enorme schieramento delle diciotto armate contrapposte, capisce che ci sarà una tremenda carneficina, e si domanda che senso abbia trucidarsi a vicenda, nella stessa famiglia e nello stesso popolo.

Per convincerlo a combattere Krishna congela l’azione: mentre tutti rimangono sospesi in un grandioso fermoimmagine, senz’accorgersi del tempo che passa, il dio convince il guerriero a combattere. Nella cosiddetta Bhagavad Gita, o “Canto del Signore”, le cui 700 stanze rappresentano un contraltare induista al Discorso della Montagna cristiano, Krishna spiega ad Arjuna che è inutile cercare di sottrarsi al proprio karma, perché ciò che deve accadere, accadrà: l’unico comportamento virtuoso è compiere in maniera distaccata il proprio dovere, che per un guerriero è appunto combattere.

Le vicende dei diciotto giorni di guerra formano il fiume principale del poema, che ha però molti tributari. Il più importante è il racconto che viene narrato ai Pandava durante il loro esilio nella foresta, e che occupa diciotto canti della Terza Cantica. Si tratta di un riassunto della storia del dio Rama, fratello di Krishna e anch’esso in esilio nella foresta, che è il soggetto del Ramayana di Valmiki: un poema lungo “solo” 24.000 stanze, pari a un quarto del Mahabharata, ma altrettanto popolare in India.

Come si vede, una volta che si entra nel Mahabharata si rischia di smarrircisi dentro. E dobbiamo essere grati a Carrière, Brook e Michaud per averci fornito una serie di fili d’Arianna multimediali, che ci permettono di aggirarci senza perderci nel labirinto del più grande romanzo del mondo.

© Riproduzione riservata