Nel 1933, Jorge Amado, che allora aveva 21 anni, andò a far visita con un amico a certi parenti di quest’ultimo, tra cui una zia cinquantenne di bell’aspetto, che con fare abbastanza afflitto chiese all’amico dello scrittore qualche minuto per confidargli un problema. Quando se ne andarono, Amado chiese al compare di cos’avessero parlato e lui raccontò che la donna, seguace dello spiritismo, gli aveva confessato di avere un grosso problema: il marito defunto tornava da lei e voleva far l’amore. Amado volle sapere cosa le avesse consigliato e l’amico rispose: le ho detto di farlo! Più di trent’anni dopo, nel 1966, la storia tornò in mente allo scrittore ormai consacrato dal successo di Gabriela garofano e cannella, uscito nel 1958. Così nacque Dona Flor e i suoi due mariti, uno dei più grandi successi dello scrittore brasiliano.

La vicenda

Il romanzo narra proprio la storia di una ragazza che rimane vedova di un nottambulo impenitente, si risposa con uno stimato dottore ma poi il marito riappare sotto forma di spirito molto carnale e Dona Flor si concede a un fantasmatico ménage à trois esilarante. Il romanzo, che per ricordare i vent’anni della scomparsa dello scrittore (6 agosto 2001) Garzanti riporta nelle librerie in questi giorni con la traduzione riveduta di Elena Grechi, è una summa dello stile “amadiano”, quello che nel 1962 il suo editore americano Alfred Knopf aveva definito «un universo contagioso, erotico, violento, pieno di colori e di sorprese». Ma non c’è solo questo: in Dona Flor, come in Gabriela e in altri romanzi, dietro l’aspetto del feuilleton allegro e sensuale si agita l’affresco sociale che ha rappresentato il principale interesse del romanziere: la società brasiliana con tutto l’armamentario di folclore in cui entrano lo spirito cristiano (e la magia di origine africana) così come le tensioni di classe, i caratteri e gli eccessi narrati attraverso l’uso sapientissimo di una lingua orale e poetica, dove humour e sguardo dolente si confondono in ogni pagina.

Sono passati, dunque, vent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che era nato a Itabuna, regione di produzione del cacao, a Bahia, nel 1912, e a conti fatti tutte le problematiche affrontate da Amado lungo la sua avventurosa e imponente carriera sono ancora davanti ai nostri occhi.

Il Brasile del presidente della Repubblica, l’ex capitano dell’esercito Jair Bolsonaro è segnato da un onda di razzismo simile a quella di cent’anni fa e da un’ingiustizia sociale che con la pandemia si è solo accentuata.

Qualcuno disse, con formula affascinante, che Amado aveva inventato Bahia: in realtà, Amado fu tra i primissimi a porre i neri brasiliani al centro del suo lavoro, se pensiamo che il protagonista di Jubiabà, uscito nel 1935, è un pugile e portuale nero che si mette alla guida di uno sciopero allora inconcepibile. Amado, figlio di un piccolo fazendeiro del cacao (che però era stato ciabattino), emigrò giovane studente di diritto a Rio de Janeiro ma si diede presto al giornalismo e alla scrittura. Si iscrisse al Partito comunista, fu oppositore del regime nazionalista di Getúlio Vargas, fu esiliato, eletto deputato dopo la Seconda guerra mondiale e si distanziò dalla politica attiva nel 1956 con le rivelazioni dei crimini di Stalin, senza però abbandonare lo sguardo engagé.

Libertà di culto

Il tema della tolleranza religiosa, spessissimo al centro dei suoi romanzi, è una ferita tutt’ora aperta e uno di quelli su cui Amado fu profetico. Fu proprio lui nel 1946, come deputato del Pcb e integrante dell’assemblea costituente, a firmare la legge sulla libertà di culto. Che oggi è di nuovo minacciata, specialmente quella delle religioni afro-brasiliane. La differenza è che negli anni Venti e Trenta – ed è il samba a raccontarcelo – i sambisti, che spesso si trovavano a suonare negli stessi cortili in cui si praticavano i culti sincretici, umbanda e candomblé, venivano perseguiti della polizia a cavallo, bastonati, gli strumenti sequestrati e distrutti. Oggi non è la polizia a entrare nei terreiros ma i narcotrafficanti: sono i culti evangelici diffusi soprattutto nelle favelas a opporsi a quelli di origine africana; spesso, come recita lo slogan “bibbia e pistola”, i narcos brasiliani sono evangelici. Le chiese evangeliche che sono, per altro, un consistente bacino elettorale del governo di Bolsonaro, oltre ad esprimere deputati e sindaci.

La questione dei culti è importante perché è uno degli aspetti nascosti in cui si annida la persecuzione dei neri e degli indios, il cosiddetto razzismo strutturale che Amado aveva molto ben presente fino al suo ultimo capolavoro, Tocaia grande, del 1984, che significa (non a caso) “grande imboscata”, il nome di una città immaginaria che sorge nella foresta ma poi viene distrutta dall’arrivo della civiltà. Un’allegoria che con formula efficace il sociologo Jesse Souza chiama «schiavocrazia», cioè quella «democrazia incompiuta» tornata in auge di fronte alle spinte autoritarie del bolsonarismo.

Con i suoi primi romanzi, il cosiddetto “ciclo del cacao”, Amado aveva raccontato un paese non così diverso da quello di oggi. Il grande antropologo Darcy Ribeiro ebbe a dire: «Il cacao potrà anche scomparire un giorno, ma non scompariranno i libri di Jorge Amado sul mondo del cacao, il ritratto di quell’umanità singolare fatta di implacabili proprietari terrieri, lavoratori schiacciati, puttane bellissime e belle signore libere e amorose…».

Sì, sono importanti anche le belle signore «libere e amorose», perché il mondo amadiano, disse Pablo Neruda, «debordante di sensualità e allegria», non può essere apprezzato senza cogliere questo mix: da qui è passata la sua grande popolarità, il fatto di essere stato l’autore più letto in Brasile, più portato sullo schermo e in tv, proprio attraverso i suoi personaggi femminili. Gabriela, Tieta, Teresa Batista («stanca di guerra»). Amado, come nessun altro, ha dato dignità alla figura femminile non nel romanzo, ma nella vita brasiliana: una società maschilista come poche altre dove legioni di figli sono cresciuti da donne sole che lavorano, spesso in condizioni di informalità.

Ma ancora una volta, il ritratto amadiano va oltre, perché coglie uno spirito che non attiene allo schema sociale bensì alla natura del popolo. Ed è proprio Dona Flor e i suoi due mariti il libro rivelatore in questo senso. Il sociologo Roberto DaMatta ha parlato di «carnevalizzazione». Il personaggio di Dona Flor, secondo lui, è il ponte tra due modi di vivere. Da un lato, attraverso il secondo marito, Teodoro, lo stile borghese, decoroso; dall’altro, con Vadinho, il morto (il cui nome è un gioco di parole con il termine “vadio”, cioè fannullone, canaglia), il quale invece rappresenta il modo di vivere “carnevalizzato”: vale a dire che Vadinho concepisce la sua vita unicamente nelle relazioni sociali (la strada) senza pur tuttavia alcun compromesso sociale. Dona Flor, secondo DaMatta, è una costruzione originalissima dell’ambiguità come valore. Dal momento che il cuore «contiene due sentimenti controversi e opposti» si domanda Dona Flor, «perché scegliere se voglio entrambe le cose?».

Il poeta Ferreira Gullar, amico di Amado e anche lui esiliato (ma sotto la dittatura del 1964), parlava di natura «permissiva» dello spirito del popolo, «aperto», e lo vedeva rappresentato in Vinicius de Moraes, il quale mentre era poeta laureato e diplomatico girava «con un santo di macumba appeso al collo». DaMatta dedicò un saggio al «dilemma brasiliano» come convivenza di queste due anime, la cui risposta sembra essere Dona Flor. Jorge Amado ha raccontato il dilemma, lo ha reso carnale, vivo, ne ha fatto commedia e opera politica. A chi gli chiedeva perché con Gabriela aveva cambiato rotta, passando dal realismo socialista di Cacao, Sudore, Terre del finimondo, a quello più allegro e magico di Dona Flor e Bottega dei miracoli, rispondeva che non aveva affatto cambiato strada: c’era una solida e ferma «continuità» nella sua opera.

Il protagonista del suo primo romanzo, Il paese del carnevale, Paulo Rigger, a un certo punto dice: «Alla fine forse il popolo ha ragione. Nel carnevale c’è tutto». Basta che si sappia però che carnevale non è una festa, bensì una metafora, un mito, una verità mascherata da bugia.

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