Immaginate una pandemia mondiale. Questa volta non si tratta di un banale coronavirus bensì di un morbo ancora più contagioso e letale, che in poche settimane falcia nove decimi della popolazione mondiale. E ora immaginate che i superstiti inizino a organizzarsi per rifondare la civiltà. È la trama di uno dei romanzi più celebri di Stephen King, L’ombra dello scorpione, pubblicato per la prima volta nel 1978. Un romanzo che partendo da uno spunto fanta-sanitario, e poi deviando nell’horror puro, interroga il funzionamento della nostra società. 

Quando le città iniziano a spopolarsi è l’intera catena produttiva che s’interrompe. Tutto quello che sembrava scontato non lo è più. Niente più elettricità e niente più ospedali dove operare una banale appendicite o far partorire una donna. Per il cibo, fortunatamente, basta servirsi negli empori e nei supermercati dove giacciono abbandonate montagne di scatolette, perlomeno finché non si esauriranno. I sopravvissuti si organizzano in due gruppi antagonisti: chi vincerà? Uno dei personaggi, il sociologo Glen Bateman, ha una teoria: a prevalere sarà il gruppo che ha dalla sua i tecnici, a partire da quelli in grado di far funzionare l’elettricità. 

Ma è davvero così? Nella realtà, ogni tecnico ha bisogno di altre persone che lo nutrano e soprattutto che implementino le sue soluzioni. Se gli individui competenti sono indubbiamente necessari, una società complessa funziona quando dispone di personale in ogni reparto, nella giusta proporzione. I suoi tecnici potrebbero anche essere troppi. Oppure i loro saperi potrebbero essere antiquati, come quelli degli intellettuali scolastici alla fine del medioevo. Così si spiega come mai le società avanzate si trovano nei confronti del loro ceto istruito in un rapporto paradossale e spesso conflittuale, del quale il populismo è il sintomo più evidente. Possiamo chiarire questo paradosso in otto punti, provando in questo modo a gettare una nuova luce sugli eventi che abbiamo vissuto negli ultimi anni (e particolarmente negli ultimi mesi) nonché a mostrare perché lo scambio ineguale sul quale si fonda l’attuale assetto sociale fatica a stare in piedi.

La società moderna intrattiene con i competenti un rapporto di dipendenza

In un altro scenario post atomico, quello del film Mad Max Fury Road, il signore della guerra Immortan Joe governa con pugno di ferro una comunità perduta in mezzo al deserto australiano. Il suo potere, prima ancora che sulla forza bruta, è fondato sul controllo delle riserve d’acqua, un bene necessario, al quale nessuno può permettersi di rinunciare. Nella nostra economia la competenza ha un ruolo simile: è un servizio essenziale. Non è sufficiente dire che la competenza è necessaria al funzionamento di una moderna società industriale, bisogna inoltre precisare che nel corso dei decenni il suo sviluppo ha posto le condizioni per un monopolio radicale, da parte di un’élite istruita, sull’amministrazione dei fatti economici e sociali. Innanzitutto perché la classe competente partecipa alla soddisfazione di bisogni divenuti essenziali per effetto dell’abitudine, bisogni che in una società meno avanzata non potrebbero essere soddisfatti; e in secondo luogo perché gran parte dell’attività di questa classe consiste, come ha ben mostrato Ulrich Beck, nel risolvere effetti collaterali generati dalla sua stessa attività.

È interessante notare che di “dipendenza” si parla anche per definire la condizione economica delle nazioni decolonizzate nei confronti del primo mondo: in effetti queste, dopo essere state irrimediabilmente trasformate dai loro occupanti, che avevano fornito per decenni l’élite istruita incaricata di farle funzionare, non possono né tornare alla loro condizione originaria né competere alla pari con le altre nazioni. Quanto più è stretto il rapporto di dipendenza tanto più è alto il prezzo per svincolarsene, ovvero una fase di miseria e disordine civile; prezzo che spesso risulta più alto di quanto la società sia ragionevolmente disposta a pagare. Lo stesso vale per la dipendenza nei confronti della classe competente, per la quale vale il motto di re Luigi XV: dopo di noi, il diluvio.

La divisione del lavoro costituisce un fattore d’ineguaglianza che deve essere continuamente legittimato

Uno vale uno? Assolutamente no. La nostra società si fonda su un articolato sistema di trasmissione e selezione delle competenze — scuola e università, praticamente il suo sistema riproduttivo — che produce individui specializzati nelle mansioni che andranno a svolgere nelle grandi tecnostrutture pubbliche e private. Ma la formazione e la remunerazione di questi individui costituisce un costo che ricade sulla collettività. La quale talvolta non vede di buon occhio questo privilegio: si pensi alle incisioni del Cinquecento — come quelle della Nave dei pazzi di Sebastian Brant — che raffigurano gli intellettuali come degli stralunati oziosi, circondati da libri inutili. Secoli dopo, l’anarchico Michail Bakunin accusava i comunisti di voler mettere in piedi una dittatura degli istruiti sugli ignoranti, ma si dovette attendere Max Weber negli anni Venti per mostrare che questo sarebbe stato anche il destino del capitalismo.

In una società che premia la competenza assegnando a chi la possiede una quota generosa del plusvalore totale si pone a ogni livello la necessità di giustificare il differenziale di trattamento sia con espedienti mitico-simbolici — come il culto della competenza — sia più concretamente fornendo dei risultati. Storicamente ogni nuovo paradigma s’impone facendo leva su elementi irrazionali e rischia di entrare in crisi nel momento in cui delude le sue promesse.

Lo sviluppo della competenza fa emergere una quantità crescente di rischi da amministrare

Possiamo definire la competenza come un servizio di produzione della sicurezza attraverso la riduzione dell’incertezza del mondo. Tra la fine del medioevo e la prima modernità, la civiltà occidentale pone proprio la sicurezza (nel duplice senso di essere sicuri ed essere al sicuro) a fondamento del proprio ordine politico. Concretamente questo significa che il competente individua dei rischi nel suo campo — sanitario, ingegneristico, ma anche sociale, psicologico, politico, eccetera — e propone delle soluzioni: così una crescente quantità di pericoli, piccoli e grandi, che avrebbero potuto colpire l’individuo o la collettività si trovano a essere anticipati e in molti casi evitati, mentre in società meno avanzate vengono semplicemente subiti.

Conoscere il mondo significa avere una visione sempre più precisa dei rischi che lo abitano: si pensi alle nuove sindromi e malattie che di decennio in decennio vanno ad aggiungersi al manuale dei disturbi mentali (Dsm). Poiché i potenziali pericoli da prevenire sono in numero infinito, a essere illimitata è anche la sfera di dominio della sicurezza garantita dalla competenza. Non esiste alcun limite naturale alla quantità di fatti, situazioni ed eventualità che possono divenire oggetto di un intervento migliorativo o precauzionale da parte della classe competente — che proprio in questa estensibilità del campo della produzione di sicurezza ha la principale garanzia di poter continuare a espandersi e portare a sé risorse. Ma se questa capacità di creare bisogni appare come una fonte inesauribile di legittimazione, la vera difficoltà consiste nel riuscire a soddisfarli tutti quanti.

Ogni sforzo per amministrare il rischio produce nuovi rischi

La continua estensione del dominio della sicurezza non è priva di conseguenze e ha sempre un costo. Intervenire per risolvere un problema produce imprevedibili effetti di secondo ordine, talvolta persino dannosi. Gli errori medici, per fare un esempio, sono la terza causa di morte negli Stati Uniti. È come se bastasse mettere un dito nell’ingranaggio, sia esso l’ospedale oppure il tribunale, per essere risucchiati dentro. Quando ancora la medicina uccideva più persone di quante ne guarisse, fino a fine ottocento, la scuola viennese aveva promosso il cosiddetto «nichilismo terapeutico»: consisteva nel non curare il paziente. La logica precauzionale del nostro tempo, forte degli straordinari risultati del progresso tecnico-scientifico nel garantire benessere materiale e igiene, è esattamente opposta: ogni cosa, dall’umore alla comunicazione interpersonale, è già in sé disfunzionale e deve essere tenuta sotto controllo, integrata, accompagnata, puntellata da personale competente.

In questo modo si creano talvolta dei mostri, come quell’epidemia di consumo di psicofarmaci che ogni anno fa centinaia di migliaia di vittime collaterali. Si è calcolato che circa due terzi delle diagnosi di depressione fatte in America (spesso da medici generalisti) non sono motivate: di tutta evidenza, la classe competente non è mai competente abbastanza. Qui come altrove, uno dei più ricorrenti difetti di progettazione all’origine di incidenti e catastrofi consiste nel presupporre un livello di competenza superiore a quello realmente (e realisticamente) disponibile.

Il sistema “meritocratico” di riproduzione delle competenze riproduce innanzitutto le ineguaglianze

Nel corso dei decenni i meccanismi di selezione all’ingresso del mercato del lavoro qualificato sono diventati sempre più competitivi: vale a dire che, praticamente a ogni livello e a parità di mansione vengono richiesti agli aspiranti degli investimenti economici sempre più alti e anni di studio sempre più numerosi. Questo non ha nessun effetto positivo sulla competenza acquisita — che anzi è stazionaria secondo vari indicatori — ma serve semmai a scremare un eccesso di offerta conservando la finzione meritocratica che legittima le ineguaglianze sociali. Il primo effetto perverso, tuttavia, è proprio di riprodurre e accentuare queste ineguaglianze, come già denunciato da Pierre Bourdieu mezzo secolo fa: all’aumento del costo si escludono dalla corsa i ceti meno abbienti, mentre all’aumento della durata si penalizzano le donne che scelgono di avere figli. Alla fine di un processo di selezione concentrato sul valore di scambio (dei titoli) invece che sul valore di uso (delle competenze reali), si accentua lo scarto salariale tra una piccola minoranza di “eccellenti” iper remunerati, una maggioranza poco pagata e addirittura un “esercito di riserva” che fatica ad accedere al mercato del lavoro.

Ostacolando il ricambio e la circolazione in seno alle classe competente, questa si condanna a riprodursi sempre identica a sé stessa per classe, genere, provenienza culturale, ideologia, così ostacolando anche l’innovazione che sarebbe utile per adattare metodi e modelli ai cambiamenti sociali. Proprio come nei processi evolutivi, una maggior componente di casualità potrebbe rendere più efficiente il meccanismo nel rispondere ai bisogni della collettività — ma di tutta evidenza non è questa la priorità che lo guida.

Le finalità dei competenti tendono a divergere da quelle del resto della società

La competenza costituisce un’interfaccia attraverso la quale viene rappresentato il mondo e operati degli interventi su di esso. Non soltanto la selezione della classe competente si svolge attraverso la mediazione di “segnali” (come i risultati degli esami e i titoli) che si suppongono rappresentativi delle reali competenze, ma inoltre l’esercizio stesso della competenza consiste nello svolgere una serie di operazioni simboliche attraverso interfacce (i cosiddetti modelli) che rispecchiano la realtà esterna. Questo sistema è ben rappresentato dalla strana storia raccontata nel romanzo Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick, pubblicato nel 1958. Ragle Gumm vive in una tranquilla cittadina statunitense e partecipa ogni giorno al gioco a premi Dove andrà oggi il nostro omino verde? Curiosamente vince quasi sempre. In verità, scopriremo alla fine del libro, Gumm vive in una simulazione. Nella realtà il mondo è in guerra, lui è un analista d’intelligence e il suo lavoro consiste nello scoprire dove cadranno i missili del nemico. In seguito a un trauma psicologico, per permettergli di continuare inconsapevolmente a lavorare i suoi superiori hanno costruito un ambiente fittizio nella sua mente. Qui la posizione dell’omino verde corrisponde al punto in cui cadono le bombe; il gioco a premi è soltanto l’interfaccia che permette all’analista di continuare a lavorare. Cosa succede invece nel mondo reale, come hanno notato tanti sociologi dell’organizzazione nel corso dei decenni? Che una fiducia troppo rigida dell’interfaccia porta a fenomeni di incapacità addestrata e che una devozione eccessiva alle finalità interne dell’organizzazione porta ad allontanarsi dalle finalità per le quali era stata costituita — è la cosiddetta distorsione dei fini individuata da Robert Michels nei primi anni del Novecento. Così il sistema educativo finisce soprattutto per selezionare i migliori ad accumulare non competenze ma segnali di competenza; in questo modo consegnando alle grandi burocrazie pubbliche e private degli individui eccellenti nell’applicare meccanicamente un pugno di algoritmi generalissimi ma spesso incapaci di adattarsi agli imprevisti.

Ogni singolo investimento in competenza ha un rendimento marginale inferiore al precedente

È noto in economia il fenomeno dei rendimenti marginali decrescenti, individuato fin dal Settecento osservando come ogni singolo ettaro di terreno coltivato fornisce sempre un po’ meno del precedente. La ragione è che cominciamo sempre da ciò che fornisce facilmente risultati e procediamo verso il più difficile. Molti studiosi del collasso, da Ivan Illich a Joseph Tainter a Mauro Bonaiuti, hanno individuato in questa legge il principio invisibile che porta le civiltà a estinguersi. E John Hobson, il grande teorico dell’imperialismo, aveva intuito come questa stessa legge guidasse l’impellente necessità di espansione delle grandi potenze. Ecco, se consideriamo la competenza come un vero e proprio fattore di produzione, seguendo le intuizioni dei precursori della Knowledge Economy, possiamo parlare di una legge dei rendimenti decrescenti della competenza.

In effetti il sistema educativo, costretto a formare strati sempre meno qualificati di manodopera intellettuale per far fronte di una domanda crescente da parte del mercato del lavoro, fatica a riprodurre un livello di competenza uniforme e tende quindi a diminuire la sua qualità. Inoltre l’accumulazione del sapere all’interno di un paradigma muove da scoperte più rivoluzionarie ad aggiustamenti marginali: sono numerose le discipline che da vari decenni non riescono più a produrre innovazioni all’altezza di quelle fatte in passato, e frequenti i dibattiti sulla “fine della scienza”.

Certo le scoperte sono all’ordine del giorno, ma i risultati sono sempre meno soddisfacenti rispetto all’enorme spesa che la classe competente richiede alla collettività. Così l’equilibrio dello scambio ineguale sul quale si regge la legittimità dei competenti entra in crisi: a fronte di un costo di riproduzione crescente, la classe competente ha cessato di tenere fede alle sue promesse; essa deve continuare a espandere il suo dominio come gli imperi di Hobson, ma è condannata allo stiramento. La sua sola fonte di legittimità resta la dipendenza che ha istituito, ovvero l’assenza di alternative ragionevoli: il processo di modernizzazione appare come irreversibile, se non al costo di sacrifici insostenibili.

Formando più competenti di quanti non possa assorbire, la società produce una classe disagiata potenzialmente rivoluzionaria

Nel 1932 Robert Michels li chiamava gli “spostati”, un trentennio prima che John Huston e Arthur Miller mettessero in scena una Marilyn Monroe triste e disperata nell’omonimo film (in inglese, The Misfits). Sono quella sotto-classe d’individui che, educati per essere assorbiti nell’elite della società capitalistica, si trovano ad esserne esclusi per mancanza di posto. Disagiati, delusi, frustrati, risentiti — e nello stesso tempo abbastanza istruiti per confrontarsi alle élite culturali stabilite, gli spostati andranno ad alimentare le file dei partiti rivoluzionari o di quelli che oggi chiamiamo “populisti”. In effetti la retorica antisistema alla quale ricorrono gli spostati è “populista” perché, fiutando la crisi di legittimazione che tocca la classe competente, si offrono in sua sostituzione al popolo dei non-competenti come nuova classe competente. Avviene così talvolta la “distruzione creatrice” che permette ai paradigmi di rinnovarsi e a un nuovo ciclo di competenza di riavviarsi; raramente senza un interregno più o meno lungo di caos e di miseria, talvolta di guerra e spesso di violenza.


Queste otto tesi definiscono i singoli elementi di una dinamica ricorrente nei cicli di sviluppo delle società complesse, fin dall’antichità e dal medioevo. Ma più precisamente segnalano una fragilità strutturale al processo di modernizzazione, fondato sul circolo virtuoso tra investimenti in competenza e sviluppo economico, nonché sull’ambizione di sussumere l’intera realtà sociale sotto il dominio della competenza. Se molti dei cicli precedenti hanno potuto bene o male essere riavviati, scontando fasi secolari di aggiustamento, la tarda modernizzazione euro-americana dovrà invece pagare il prezzo del suo consumo spropositato di risorse e della distruzione su scala industriale degli ecosistemi preesistenti.

Ricapitoliamo la sequenza: 1) La società moderna intrattiene con i competenti un rapporto di dipendenza; 2) La divisione del lavoro costituisce un fattore d’ineguaglianza che deve essere continuamente legittimato; 3) Lo sviluppo della competenza fa emergere una quantità crescente di rischi da amministrare; 4) Ogni sforzo per amministrare il rischio produce nuovi rischi; 5) Il sistema “meritocratico” di riproduzione delle competenze riproduce innanzitutto le ineguaglianze; 6) Le finalità dei competenti tendono a divergere da quelle del resto della società; 7) Ogni singolo investimento in competenza ha un rendimento marginale inferiore al precedente; 8) Formando più competenti di quanti non possa assorbire, la società produce una classe disagiata potenzialmente rivoluzionaria.

All’inizio del film Interstellar, diretto da Christopher Nolan, l’intero pianeta è diventato praticamente inabitabile. Il protagonista è un ex pilota della Nasa ridotto controvoglia a fare il contadino ma convinto che le sue competenze possono ancora essere utili: il suo sogno è partire nello spazio per cercare un nuovo pianeta da colonizzare, proprio come l’imprenditore americano Elon Musk. All’inizio del film una scena contrappone questa visione — rischiosa, folle — a quella più realistica, dunque pessimista, degli altri sopravvissuti, che si accontentano di “decrescere” verso un'economia di sussistenza. Oggi abbiamo di fronte un dilemma abbastanza simile. Dobbiamo capire se per risollevarci dalla crisi ci conviene ripiegare, magari verso i campi, oppure guardare in alto, dove volano le astronavi: insomma la soluzione sarà meno o più competenza? Come spesso accade al cinema, in Interstellar l’idealismo alla fine vincerà, forte del fatto che nessun passo indietro è possibile senza che crolli come un castello di carte l’intero ordine sociale. Ma nel mondo reale il lieto fine non è assicurato, e anche i razzi di Elon Musk ogni tanto precipitano.

È evidente che la nostra società richiede sempre maggiori investimenti in competenza così da poter affrontare la mole crescente di rischi che emergono; il problema è che fa fatica a generare lo sviluppo necessario per finanziare tutta la competenza di cui avrebbe bisogno. Il rapporto di dipendenza nei confronti della classe competente si è fatto radicale e irreversibile: nel momento in cui venisse a cadere la sua capacità di tamponare gli effetti collaterali dell’avanzamento tecnologico, sia sanitari che sociali, essi finirebbero per riemergere tutti assieme in una volta sola: malattie, malessere, violenza, ponti che crollano. Una magnifica diga, la più avanzata e complessa, ancora trattiene il male del mondo; ma le incrinature che la percorrono sono sempre più evidenti.
 

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