In entrata soprattutto banane e ananas, in uscita soprattutto mele e kiwi. L’Italia è quel che si dice un importatore netto di ortofrutta, cioè un paese in cui i prodotti in arrivo dall’estero, due milioni di tonnellate l’anno, superano quelli esportati, 1,7 milioni di tonnellate.

Nonostante questo, però, restiamo tra i maggiori esportatori ortofrutticoli, con kiwi e mele nostrani che raggiungono oltre cento destinazioni sparse per il mondo: senza dubbio, la maggior parte si riversa all’interno del mercato europeo ma, soprattutto in tempi relativamente recenti, le aree del Medio Oriente e del sud-est asiatico si sono imposte come importanti punti d’approdo.

In particolare, «negli ultimi cinque anni circa, le imprese italiane del settore hanno lavorato intensamente per penetrare in mercati complessi come quello cinese e vietnamita, ottenendo un discreto successo», ci spiega Alessandra Castellini, docente di Economia dei mercati agroindustriali all’università di Bologna. «Tuttavia, senza precipitarsi in allarmismi, oggi i risultati di quello sforzo sono messi in seria discussione dalle tensioni divampate nel mar Rosso, che imporranno nuovi cambiamenti alle filiere».

La strategia degli Houthi

Il 20 novembre scorso, su testate online e canali social inizia a rimbalzare un filmato che, per montaggio e cura delle immagini, lascia subito intuire come la sequenza di azioni riprese sia stata ampiamente preparata e premeditata: un modesto elicottero militare battente bandiera palestinese atterra sulla nave cargo “Galaxy Leader”, di proprietà dell’uomo d’affari israeliano Abraham Ungar, e un manipolo di guerriglieri armati avanza a volto coperto fino al ponte di comando, intima ai membri dell’equipaggio di non opporre resistenza e dirotta l’imbarcazione verso il porto yemenita di Hodeida.

I fatti sono avvenuti il giorno precedente, il 19 novembre, e segnano l’inizio di un’escalation che da settimane coinvolge l’area meridionale del mar Rosso, con conseguenze dirette per mezzo mondo.

Negli ultimi tre mesi, infatti, le milizie Houthi, movimento yemenita antigovernativo, hanno lanciato decine di raid e attacchi missilistici contro altrettante imbarcazioni commerciali destinate a porti israeliani. L’obiettivo dichiarato, con il beneplacito dell’Iran, è quello di destabilizzare le principali rotte marittime internazionali, facendo pressione sullo stato ebraico affinché cessi l’assedio in corso a Gaza.

Lunedì 19 febbraio, anche l’Unione europea ha dato il pare re favorevole alla sua missione militare nel mar Rosso, Aspides, che sarà guidata per i primi mesi dall’Italia.

Cosa passa per il canale

Così, da settimane il mondo guarda con crescente apprensione a un’area in cui, in condizioni normali, transita il 40 per cento dei commerci marittimi globali e che, alle condizioni attuali, risulta quasi inaccessibile per le principali compagnie di navigazione, costrette a percorrere vie alternative con inevitabili rallentamenti delle reti di approvvigionamento. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, non ha esitato a definire quella in corso nel mar Rosso come «la nuova guerra ibrida che abbatte intere economie e che potrebbe marginalizzare il Mediterraneo».

In particolare, il vero collo di bottiglia è rappresentato dal canale di Suez, lo stretto passaggio che da un secolo e mezzo permette la circolazione diretta dal mar Mediterraneo all’oceano Indiano evitando l’incombenza di circumnavigare l’Africa. Di lì passa circa il 30 per cento del volume dei container del trasporto marittimo internazionale e l’Italia, anche per ragioni di prossimità geografica, è uno dei paesi più esposti alle conseguenze del blocco.

Ogni anno, infatti, transita per Suez poco meno della metà dell’export italiano e l’agroalimentare sembra essere uno dei settori più minacciati dalla crisi in corso, con quattro miliardi di euro di prodotti destinati al mercato asiatico.

Di questi, secondo stime di Coldiretti, 500 milioni sono frutta e verdura.

Aumentano tempi e costi

In sostanza, quel che accade da diverse settimane è che, onde evitare il rischio di blocchi o attacchi diretti, un gran numero di compagnie di shipping dirette in Asia e Medio Oriente ha deciso di intraprendere la rotta che passa da Capo di Buona Speranza, seguendo in scia i grandi nomi del settore – da Msc a Maersk – che fin da subito hanno optato per una via più sicura, sebbene molto più dispendiosa.

Circumnavigare l’Africa da sud richiede, infatti, di percorrere circa 3500 miglia nautiche in più, con un’enorme dilatazione dei tempi e dei costi. «Secondo alcune stime, ad esempio, trasportare frutta dall’Italia verso l’India passando per Suez richiedeva 28 giorni, mentre ora ne occorrono 40», spiega la prof.ssa Castellini, «e questo pone un grosso problema per quanto riguarda i contratti stipulati con gli acquirenti.

Intendiamoci: la frutta che arriva a destinazione non è marcia, ma sicuramente perde di qualità e aumenta di prezzo e questo è sufficiente per dover rinegoziare gli accordi raggiunti prima della crisi». In gergo tecnico si definisce shelf-life ed è la durata di conservazione della merce fresca, il tempo oltre il quale un certo prodotto non è più consumabile.

In tal senso, specificava a gennaio Elisa Macchi, direttore di Cso Italy: «Il problema, sulla base della stagionalità dei prodotti ortofrutticoli, interessa prevalentemente e in ordine di importanza mele, kiwi e agrumi ma se questa situazione dovesse permanere saranno coinvolti anche altri prodotti come ad esempio uva da tavola e susine».

Il rischio del rimbalzo

Negli ultimi anni, secondo una valutazione dello stesso Cso, l’Italia in media ha destinato verso il Medio Oriente e il sud est asiatico rispettivamente 150 mila e 80 mila tonnellate di ortofrutta, per un valore complessivo superiore ai 300 milioni di euro.

Su questi numeri, oggi una delle principali preoccupazioni degli addetti ai lavori è che il problema (comune a tanti paesi dell’Ue) della mancanza di sbocchi alternativi, porti a un rimbalzo della merce nel mercato interno e a un surplus di offerta.

Tradotto: frutta in eccesso venduta a prezzi irrisori. Il che potrebbe essere un bene per i consumatori, ma lo sarebbe meno per un settore già alle prese con criticità economiche e soprattutto climatiche di portata storica.

La partita, insomma, è complessa e si gioca tutta intorno alle prospettive di risoluzione di una crisi regionale che, però, presenta piuttosto le caratteristiche di uno stallo a lungo termine, in grado di stravolgere il volto del commercio globale.

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