Per “secoli e secoli” élite e popolo hanno continuato a usare senza offendersi parole che oggi offendono, ha scritto Luca Ricolfi su Repubblica qualche giorno fa. E quella continuità di uso libero e non ipocrita (autentico!) della lingua ha cementato l’unità tra «la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini».

Chiamare “cafone” un poveraccio o, negli anni dell’emigrazione interna, chiamare “terroni” gli italiani meridionali non offendeva nessuno, sembra di capire leggendo Ricolfi.

Le persone erano meno ipocrite di come siamo noi oggi, oppressi dall’uso di un linguaggio che dovrebbe riuscire a non offendere nessuno: il “politicamente corretto”.

Paragonandolo a un virus con le sue numerose mutazioni, Ricolfi parla del “politically correct” come di un contagio che dagli Stati Uniti si è diffuso ovunque.

Nella sua narrazione, la nascita di questa malattia contagiosa sarebbe partita dalla mutazione della sinistra americana, da quella buona o attenta alle questioni sociali a quella malata di diritti civili che ha dagli anni Settanta cominciato a occuparsi di minoranze e quindi di riconoscimento e, alla fine, dell’uso stesso della lingua.

È come se si fosse passati dalla denuncia del disagio sociale dei terroni al disagio dei terroni per sentirsi chiamare terroni. Sembra di capire dall’analisi di Ricolfi che non ci sia posto per una corrispondenza tra giustizia sociale e rispetto delle persone attraverso il linguaggio; e così, si mette in un unico paniere tutto quel che sta insieme al politicamente corretto, il bene (come l’uso rispettoso del linguaggio) e il male (come la burocratizzazione dell’ordine linguistico che raggiunge forme paranoiche).

È questo l’aspetto dell’intervento di Ricolfi che colpisce, e non convince. Perché il disagio sociale non deve e non può essere barattato con il rispetto sociale.

La sinistra che si dimentica delle questioni sociali lasciandole alla destra produce una stortura uguale o opposta, perché la equa distribuzione dei costi e dei benefici sociali non deve comunque essere barattata con la libertà (progetto delle destre) e nemmeno con la dignità (progetto di una sinistra di materialismo volgare, come si usava dire un secolo fa).

Non si può né si dovrebbe mai nell’era dei diritti concentrarsi sull’assistenza lasciando stare i diritti civili e, quindi, il disagio delle minoranze o di chi è solo maggioranza numerica. Il politicamente corretto nasce da questa idea giusta.

Il problema è che la sua esagerazione lo ha portato a essere perfino ridicolo, e certamente ingestibile nella vita ordinaria (come mi rivolgo al mio/mia studente?). Ma non si dovrebbe imitare questo estremismo e buttare il bambino con l’acqua sporca.

La lingua non è neutra

©Sven Brandsma

Il linguaggio è uno strumento di comunicazione pieno di etica e la sua struttura non è irrilevante rispetto al trattamento sociale, non è neutra.

Chi ha cominciato a lottare per le conquiste di dignità e giustizia, ha cominciato anche dal linguaggio – quando Marx rifiutava di usare la parola “poveri” e “povertà” e usava invece “proletari”, “sottoproletari” e “sfruttamento di classe” faceva un uso rivoluzionario della lingua, mettendo a nudo subito, nelle parole, le relazioni di dominio.

Quello di Marx era già un uso “corretto” della lingua, corretto in relazione alla sua lettura di classe della società borghese; e fu molto criticato dai suoi contemporanei per non chiamare le cose con “il loro” nome, ovvero “sfortuna”, “destino”, “svogliatezza” o invece “merito”, “intraprendenza”, ecc.

Il linguaggio copre o svela le relazioni di potere. Il gioco è antico, come quello del linguaggio “corretto” (per chi? e per dare quali informazioni?).

Non è iniziato, come scrive Ricolfi, quando la parola “negro” è stata sostituita dalla parola “nero” (alla quale sostituzione, anche il movimento di Martin Luther King Jr. e poi Barack Obama hanno molto contribuito), ma certamente la razza e il razzismo sono stati madre e padre della lunga marcia da “negro” a “nero” ad “afroamericano”.

Ricolfi ci dice che prima di questo tempo, del nostro tempo, l’uso della lingua era libero; poi, da un certo momento, è cominciata una china pericolosa, che dal linguaggio finisce con la proposta di leggi come quella bocciata recentemente dal Senato.

Diremmo che, se questa non è una rivoluzione poco ci manca. È anche per questa ragione che oggi si battaglia contro il politically correct (ma in realtà per colpire altro, ovvero la catena dei diritti che sembra non interrompersi mai); e, purtroppo, la stupidità che alcune forme di questo codice linguistico rende questa battaglia facile. Ma andiamo con ordine.

Due sono gli schemi principali del ragionamento di Ricolfi: che il politically correct è un linguaggio che crea le cose (mentre, sembra di capire, dovrebbe essere il contrario) e che le cose che ha creato questo linguaggio sono regressive, come lo sono i diritti civili portati oltre un certo punto (quale, non è dato capire). Il linguaggio crea le cose – certamente! Lo abbiamo visto con la veloce scorribanda nella rivoluzione delle parole di Marx. Questo fenomeno, del linguaggio che crea le cose, è vecchio quanto la società.

Il linguaggio è un codice di convenzioni e le convenzioni sono registrazioni di potere, come ci ha insegnato magistralmente Thomas Hobbes. Prima del politically correct c’era un politically correct, dunque; uno che, appunto a causa di robuste e millenarie gerarchie sociali, non era avvertito come convenzionale, tanto era atavica la relazione gerarchica tra chi dominava l’appellazione e la significazione e chi la subiva.

Se il linguaggio crea le cose, allora si tratta di guardare dietro il velo del codice linguistico per capire in che cosa consisteva quella bella sincerità di ieri, quando usare parole come “terrone” o “cafone” non dava problemi mentre oggi saremmo redarguiti se lo facessimo e abituiamo i bambini e i ragazzi a non usare quel linguaggio. Si deve ammettere che l’educazione è una forma di ipocrisia sistemica che si sedimenta in abito o costume – senza la qual cosa non ci sarebbe apprendimento e socializzazione e neppure linguaggio. Quindi di quale ipocrisia si parla quando si lamenta l’uso politicamente corretto del linguaggio?

La correttezza di ieri

Essere sinceri e liberi di dire che cosa in pubblico? Forse che, prima, quando si poteva dare del terrone a un meridionale senza battere ciglio, eravamo liberi da codici linguistici?

O non era invece quella una forma di “politically correct” che stava bene a qualcuno ma non ad altri? Era un codice linguistico cucito sulla gerarchia sociale esistente e praticato senza tanto questionare. Il “negro” era così chiamato dai padroni di schiavi e dai bianchi, ma anche dai suoi compagni “negri” poiché per parlare di sé tra di loro usavano il linguaggio dei padroni non avendo essi altra lingua, scriveva Alexis de Tocqueville.

E da noi, il “cafone” era così chiamato dai proprietari terrieri; il “terrone” era così chiamato dagli italiani del nord, ricchi o poveri che fossero (senza avvedersi, questi ultimi, che quel linguaggio li faceva schierare dalla parte sbagliata). Il bel sincero linguaggio di ieri era espressione della correttezza di ceto o di classe o di gerarchica. Non sappiamo se i neri, i contadini e i meridionali si offendessero o se l’essere chiamati in quel modo facilitava il loro senso di sé, se li faceva sentire forti e con le stesse opportunità culturali e simboliche di chi li appellava in quel modo.

Né del resto è dato di sapere come erano chiamati gli appellanti: i bianchi padroni di schiavi, i proprietari terrieri e i nordici italiani. Loro, tutti loro, come erano chiamati dai “negri”, dai “cafoni”, dai “terroni”? Sembra di poter dire che la normalità linguistica senza ipocrisia seguiva una relazione vettoriale che andava in una direzione soltanto – “dagli” appellanti “agli” appellati – senza ritorno, senza reciprocità.

Ricolfi dice che la lingua folle di oggi crea fossati tra gruppi. Ma che cosa dire dei fossati di ieri, quelli che non potevano essere saltati? Se un proprietario terriero parlava con “suo” villico, quest’ultimo come si rapportava a lui? Probabilmente piegando il capo e dentro di sé maledicendolo – ovvero ipocritamente teneva in testa quel che pensava e si guardava bene dal rivelarlo, perché non era libero di dire quel che voleva come lo era il suo padrone.

Dunque c’era ipocrisia. C’era ipocrisia ma non egualmente diffusa. C’era ipocrisia anche quando solo alcuni potevo essere liberi di dire in faccia ad altri che erano dei terroni o negri o cafoni. Era ipocrisia di classe, si potrebbe dire in coerenza con la posizione marxista (che Ricolfi menziona come antidoto all’uso strumentale della lingua).

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