Uno dei settori più impegnati nella denuncia di diseguaglianze di genere è quello della cultura. La European university association, che rappresenta più di 800 università in Europa, ha pubblicato il report annuale con i dati relativi alla presenza femminile nei ruoli di rettrici o vicerettrici in 48 paesi.

La crescita è costante: tra il 2014 e il 2021 la percentuale è aumentata dal 10.5 al 18.1 per cento per le rettrici, e dal 24.3 al 29.1 per cento per le vicerettrici. Tuttavia in molti paesi la situazione è ancora vistosamente sbilanciata. Italia e Polonia hanno una percentuale di rettrici compresa tra l’1 e il 10 per cento; la Spagna è nella forbice compresa tra l’11 e il 20 per cento, mentre Regno Unito, Francia e Germania stanno tra il 21 e il 30 per cento. Per l’Italia la situazione migliora leggermente per quanto riguarda le vicerettrici, tra il 21 e il 40 per cento, mentre Norvegia e Islanda superano il 60 per cento.

Nelle università

Attualmente, su 84 atenei aderenti alla Conferenza dei rettori delle università italiane, le rettrici sono solo sette, ovvero l’8 per cento dell’intera categoria. Dall’incarico affidato per la prima volta nel 1992 alla professoressa Maria Tedeschini Lalli nell’Ateneo di Roma Tre, tale percentuale è rimasta pressoché costante; quel che è andata acuendosi, invece, è la distanza con la popolazione universitaria rappresentata. Oggi non solo il numero di donne che si iscrivono all’università è maggiore rispetto a quello degli uomini (55,4 per cento secondo i dati del Miur), ma anche in termini di risultato la differenza è a tutto vantaggio delle prime: le donne laureate sono il 22,4 per cento, contro il 16,8 per cento degli uomini (dati Istat). Nel periodo immediatamente successivo alla laurea, poi, sono più le donne ad ottenere un dottorato, con un picco massimo del 65 per cento nei settori delle scienze mediche (dati Oecd).

Lo strappo, la cosiddetta segregazione verticale, inizia in prossimità degli incarichi da ricercatore e risalta evidente nei passaggi successivi: nel 2018 (dati Miur) la percentuale di donne con assegno di ricerca era del 50,1 per cento, le ricercatrici ammontavano al 46,8, ma il dato crollava per le professoresse associate (38,4) e ordinarie (23,7). Dal bacino degli ordinari, questo è il funzionamento nelle università statali, vengono eletti i rettori: ecco spiegata la presenza femminile esigua nell’ambito specifico di questo incarico.

«Le ragioni sono anzitutto di tipo socioculturale», spiega Maria Grazia Monaci, una delle sette rettrici in carica, dell’università della Valle d’Aosta. «Una donna che a trent’anni abbia un figlio rischia seriamente di restare tagliata fuori dalla carriera universitaria e, del resto, le motivazioni rispetto al successo lavorativo si modificano anche in base alla difficoltà del percorso. Come retaggio della società che ci circonda, molte donne ritengono di non essere sufficientemente autorevoli per un ruolo di alto profilo e rinunciano alla competizione. Personalmente sono contraria alle quote rosa, ma ritengo che si possa agire attraverso politiche attive, il superamento di stereotipi di genere, la sottolineatura di esempi virtuosi. È interessante l’esempio di alcuni atenei che premiano i dipartimenti che si avvicinino a un bilancio di genere; ed altri aiutano le donne in gravidanza affiancando loro degli assegnisti di ricerca che possano sostituirle quando occorre».

Nei musei

In Italia il quadro migliora per le istituzioni museali, dove quasi la metà degli incarichi sono ricoperti da donne. Proprio di recente il ministro Dario Franceschini ha nominato sei nuove direttrici sui tredici posti disponibili. Dal sito web del ministero della Cultura si evince che diciannove donne dirigono i trentanove musei autonomi e parchi archeologici, dieci su diciotto sono alla direzione regionale dei musei statali, mentre ventidue su quarantatré sono a capo delle soprintendenze di Archeologia, Belle arti e Paesaggio.

Questi dati dunque non fanno sfigurare l’Italia in Europa, portandola a livelli di paesi virtuosi in tema di lotta alle diseguaglianze di genere, come la Francia. L’ultimo report dell’Osservatorio francese sulla parità di genere racconta del 58 per cento di donne alla direzione dei cosiddetti établissements (sorta di poli museali) e del 68 per cento per i musei nazionali. Nel 2020, erano rispettivamente al 40 e al 41 per cento. Anche la direzione degli Istituti di cultura italiana, con quaranta donne a capo di ottantatré rappresentanze in tutto il mondo, tiene l’Italia in media europea.

Altra cosa, rispetto alla direzione dei musei o di istituzioni culturali, è la rappresentanza femminile in campo artistico in Italia. Benché il 69,5 per cento di chi si diploma in Accademia siano studentesse, nei musei o nelle gallerie private italiane tale rapporto non è affatto rispettato. L’analisi più recente dedicata al tema, curata dal Dipartimento di Arti Visive della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, evidenzia come la percentuale di donne che espongano mostre personali in gallerie private dedicate all’arte moderna e contemporanea sia appena del 25 per cento, in quelle dedicate esclusivamente all’arte contemporanea del 32 per cento, e in quelle di fondazione successiva al 2000 del 36 per cento.

Ampliando il campo a musei pubblici e fondazioni private, tale percentuale raggiunge appena il 19 per cento: al Padiglione Italia della Biennale tra il 2007-2017 sono state esposte le opere di 59 donne e 289 uomini, con una percentuale femminile del 20.4 per cento. I lotti offerti dalle case d’asta milanesi alle opere femminili nel 2016 rappresentano mediamente appena il 5 per cento del totale, e meglio non va a livello internazionale (Londra, 2016) col 3 per cento. Tali proporzioni si riflettono anche sui prezzi di mercato, se si pensa che l’opera italiana più pagata da Christie’s nel 2016 è stata Rosso plastica 5 di Alberto Burri (4.155.000 euro), mentre quella dell’italiana più pagata lo stesso anno (Presagi di Birnam, Carol Rama) ha raggiunto “appena” quota 179.000 euro, ovvero un ventitreesimo della precedente.

Artiste

Da questo punto di vista, le cose non vanno meglio neanche a livello internazionale. Negli Stati Uniti, dove le donne rappresentano appena il 12 per cento di chi espone nei musei, né in Europa: in Svizzera, una recente indagine ha rivelato che su ottanta musei le artiste presenti con mostre individuali raggiungono solo il 26 per cento. Marta Frej, pittrice e grafica molto nota in Polonia, dove alcune sue opere hanno accompagnato le manifestazioni delle donne per la difesa dei propri diritti, dice: «Una recente indagine sulle Accademie polacche dimostra come il 77 per cento degli iscritti siano studentesse, che si riducono poi al 35 per cento del totale dei ricercatori e al 17 per cento degli ordinari. Le risposte offerte dalle intervistate rivelano come si sentano esposte di frequente a stimoli negativi, come commenti indesiderati sul loro corpo. L'anno scorso, gli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Varsavia hanno chiesto l’istituzione di una figura apposita che vigili sull'uguaglianza di genere, anche se il modo più semplice per creare una società giusta sarebbe quello di riformare l'istruzione».

Le donne dedite all’arte devono affrontare molte difficoltà anche in campo cinematografico, in Italia e altrove: basti pensare che, in 92 anni di Oscar, ad aggiudicarsi il premio come miglior regista è stata solo Kathryn Bigelow nel 2009 per The hurt locker. Il report più recente in merito alla situazione europea, curato da Les Arcs European Film Festival, dimostra che, tra 2012 e 2016, in nessun Paese il numero di registe ha raggiunto almeno un terzo dei film prodotti; tuttavia, tra il 10 per cento dell’Italia (preceduta solo dalla Lettonia con il 5 per cento) e il 30 per cento della Svezia la differenza è elevata.

Registe e fondi

Nel nostro paese la fotografia della situazione nel settore dell’audiovisivo è restituita anche dal rapporto del progetto Dea dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr: l’88 per cento dei film a finanziamento pubblico italiano sono stati diretti da uomini; il 79 per cento delle opere prodotte dalla Rai ha avuto regia maschile, così come il 90,8 per cento dei film che arrivano nelle sale. Il che, peraltro, è in assoluta controtendenza rispetto ai riconoscimenti ottenuti: l’ultimo studio di Ewawomen, network europeo delle donne nel settore audiovisivo, racconta che i premi internazionali vinti dalle registe italiane nel 2013 rappresentavano il 33 per cento, contro il 23 per cento dei registi; questa forbice sale per i premi nazionali, che le registe si sono aggiudicate per il 33 per cento e i registi per il 17 per cento.

Se si va ad analizzare nel dettaglio i fondi attribuiti per il 2020 dal nostro ministero della Cultura, tuttavia, i dati parrebbero migliorare: tra i film di giovani autori ammessi al contributo, il 50 per cento è appannaggio femminile; tra quelli per opere prime e seconde la percentuale delle registe è del 28 per cento, che sale al 33 per cento per le opere di animazione e al 35 per cento per documentari e cortometraggi.

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