Se mai fossi chiamato a partecipare ad un dibattito in merito al nuovo disegno di legge mirante ad una maggiore tutela del personale scolastico, risposta del governo Meloni agli ultimi episodi di cronaca avvenuti in alcune scuole, porterei con me due grafici.

La piramide dell’età

Il primo illustra la cosiddetta piramide dell’età, che in verità della piramide non ha più nulla, assomigliando al profilo di un salvadanaio, con una base assai contenuta e una grossa pancia.

Poche cose come la piramide dell’età aiutano a comprendere la condizione dei giovani nel nostro paese: prima di tutto essere una generazione scarsa, come è stata definita da Massimo Livi Bacci in un volume del Sole 24 Ore curato da Ilvo Diamanti del 1999.

Scriveva Livi Bacci che la fascia dei giovani tra i 15 e i 35 anni, che nel 1995 contava 17,4 milioni, sarebbe diminuita fino a contare nel 2020 11,5 milioni, con una flessione di più di un terzo.

È andata così? Si. Oggi tra i 15 e i 35 anni si contano 12,7 giovani circa, ma se scorporiamo il milione e mezzo circa di residenti stranieri della medesima fascia di età, otteniamo esattamente quanto diceva, inascoltato, Livi Bacci.

Questo declino giustifica la base ristretta della piramide, ma la pancia del salvadanaio? «Declino dei giovani significa anche un’alterazione dei rapporti tra generazioni, e non solo di quelli numerici, ma anche di quelli politici economici o sociali (…) Ogni 100 maturi ci sono 120 giovani oggi (1999) e ce ne saranno appena 67 tra poco più di vent’anni. Una rivoluzione così rapida della struttura demografica non è mai avvenuta, nel nostro paese, nel corso della storia».

Era il 1999, e non risulta che qualcuno, di fronte a questi numeri e queste considerazioni abbia perso il sonno, neanche nel triennio 2008-2011, quando Giorgia Meloni era ministro per la gioventù nel quarto governo Berlusconi.

Cosa significa essere una generazione scarsa? Significa anche vivere una condizione contemporaneamente di ipervisibilità distorta per alcuni (e finire in cronaca come uno dei giovani mostri) e di invisibilità tout court per molti altri; condizioni che non si vedono quando si parla di giovani in generale, ma che si illuminano quando si ricorda che la giovinezza è sempre socialmente, economicamente e culturalmente determinata.

La dispersione

E qui mostrerei, sempre nell’ipotetico dibattito, il secondo grafico, che illustri la realtà dell’abbandono scolastico in Italia, a partire dal dossier Analisi longitudinale sulla dispersione, recentemente pubblicato dall’ufficio di statistica del ministero dell’Istruzione e del merito che ha meritevolmente seguito il destino scolastico dei quasi 600mila ragazzi iscritti in prima media nel 2012, sino al 2021/22 per comprendere anche giovani con percorsi di studi più lunghi a causa di una o più bocciature.

Che dice il grafico? Dice che hanno abbandonato gli studi (alle medie e alle superiori) 96.177 studenti, pari al 16,5 per cento del totale. Perché hanno abbandonato?

I dati disaggregati sono impietosi: le motivazioni sono di ordine economico, sociale e culturale, quattro regioni del sud hanno percentuali assai più alte della media nazionale (Campania 19,9 per cento, Puglia 17,1 per cento, Sicilia 21,1 per cento e Sardegna 18,8 per cento); tra le prime e seconde generazioni di immigrati il tasso di abbandono è del 40,3 per cento, contro il 13,7 per cento degli italiani.

Eccoli gli invisibili tout court, i sommersi da una scuola che, per dirla con Michel Serres, grande epistemologo francese: «…i ragazzi ai quali pretendiamo di dispensare un insegnamento, all’interno di contesti tipici di un’epoca che essi non riconoscono più (…) contesti tipici, direi, di un’epoca e adatti a un’era in cui gli uomini e il mondo erano ciò che non sono più».

Gli studenti sono pochi, come mai nella storia italiana, eppure per valorizzare questa “risorsa scarsa” non si trova di meglio che incentivare la selezione e l’espulsione, mentre si dovrebbe fare ogni sforzo possibile per “mantenerli in trattamento”, come direbbe un medico interessato alla salute del suo paziente.

Abbiamo la fortuna di avere un milione e mezzo di giovani stranieri che con la loro presenza mitigano i rischi economici e sociali del crollo demografico, e noi ne espelliamo oltre il 40 per cento da quella palestra di cittadinanza e di inclusione che dovrebbe essere la scuola.

Sofferenza sociale

«Lei divaga», potrebbe contestarmi il moderatore del dibattito che sto simulando, e che in effetti dovrebbe mette a tema il nuovo disegno di legge mirante ad una maggiore tutela del personale scolastico.

In queste settimane mi è capitato di incontrare alcuni dirigenti scolastici, ai quali ho chiesto la loro esperienza in merito all’oggetto del ddl, e in particolare degli art. 4, 5 e 6, che modificano tre articoli del codice penale con altrettante aggravanti.

In estrema sintesi, le loro risposte evidenziavano la presenza a scuola di aggressività, sia da parte degli studenti che da parte dei genitori; violenza e aggressività che difficilmente però potrà essere evitata dall’aumento delle pene.

Inoltre, mi hanno spiegato che quando si occupano di violenza a scuola, fanno riferimento a quella praticata dagli studenti su loro stessi: tagli sulle braccia, autolesionismo, tentativi di suicidi: «Siamo impegnati a rincorrere i ragazzi perché non si buttino dalle finestre», mi ha detto una preside romana.

Perché tentano il suicidio? «Perché non vedono un futuro per loro». Come dargli torto? Pandemie, guerre, cambiamenti climatici, inquinamento, crisi economiche…Insomma quello che Beck aveva chiamato la società del rischio, una gamma sterminata di rischi che possono divenire realtà in ogni momento.

Forse tutto questo motiva l’ansia di massa che affligge molti giovani italiani? La risposta a sofferenze sociali di queste dimensioni può essere solo l’offerta dello psicologo, individualizzando problemi che nascono nel sociale, o la minaccia di pene aumentate?

Una scritta degli Indignados, durante l’occupazione di Plaza de Catalunya a Barcellona, recitava: «No somos antisistema, el sistema es antinosotros». Si, questo sistema agli occhi di molti giovani deve apparire contro un’intera generazione, sia che si chiami Ultima (e la cui vera colpa è non guidare trattori) o che sia costretta a minacciare il suicidio per essere visibile. Walter Benjamin, in Metafisica della gioventù, scriveva che i giovani rappresentano Quel centro dove nasce il nuovo”. Interessa a qualcuno?

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