Se è vero che “queer” oggi è termine sempre meno esotico, il problema è che lo si associa ancora all’acronimo Lgbt. Beninteso: lo si fa a ragione, perché quando nel 1990 la scrittrice e critica letteraria Teresa de Lauretis ne promosse l’uso intendeva includere nella stessa regione semantica tutte quelle forme di sessualità “sghembe” (“queer”, appunto) che mal s’adattavano all’imperativo sociale dell’eterosessualità. Oggi però torna a inguainarsi di mistero quando lo si associa a “famiglia” – e di lì una ridda d’interventi a perorare le ragioni del nuovo fenomeno e a dissiparne i misteri, specie quelli più indicibili.

Essì, perché, rispetto alla famiglia monogamica, costituita da un genitore, una genitrice e la loro prole, nella famiglia queer le persone adulte sono più di due. E non stupisce così che, nell’indomabile compulsione al voyeurismo, l’interesse del pubblico s’accentri perlopiù sull’organizzazione della vita sessuale.

Fa bene quindi Michela Murgia a insistere sull’aspetto dell’organizzazione più che su quello sessuale. Come in tutte le collettività umane, piccole e grandi, non rileva tanto chi fa sesso con chi, ma chi fa cosa e quando. Come ogni famiglia, la famiglia queer è fondata su uno speciale rapporto d’interdipendenza tra persone che condividono una parte rilevante della loro vita e si accordano sulla gestione orchestrata delle incombenze. Non si vuole con ciò negare che il sesso sia tra queste, ma per certo esso conta quanto chi fa la spesa e chi va a portare a spasso il cane. Non solo: queer può ben essere una famiglia in cui di sesso non ce n’è, perché le persone coinvolte decidono di convivere per sostenere spese, aiutarsi vicendevolmente nelle faccende domestiche, o più semplicemente farsi compagnia. Il mistero si dissipa e si capisce presto che di lascivo c’è molto poco.

Ma deluderà ancor più sapere che la famiglia queer è tutt’altro che un fenomeno nuovo. Negli studi sulla parentela – uno degli assi portanti dell’antropologia sociale – già all’inizio del Novecento studiose e studiosi occidentali dovettero constatare che la coppia monogamica era merce assai rara sul mercato della socialità umana. Quando costoro si recavano a studiare popolazioni non occidentali per passarne in rassegna il pensiero e i modi di vita, dovettero presto constatare che le idee su cosa fosse la procreazione e come si dovesse organizzare la vita famigliare erano molto diverse dalle loro.

Tra le popolazioni umane, poche credevano che la procreazione fosse un affare a due, perché molte altre entità vi partecipavano. Poche credevano che bambine e bambini dovessero essere educatə da due persone solamente – e piuttosto questa era ritenuta pratica esecrabile e sediziosa. Poche credevano che bambine e bambini acquisissero i beni di genitrici e genitori per diritto di sangue, perché si ereditava piuttosto in base alla buona condotta nei confronti di chi quei beni possedeva. I modi di fare famiglia che studiose e studiosi documentavano erano molti: dalla condivisione del cibo all’allattamento, dalla lavorazione della terra all’esecuzione di specifiche ritualità. Insomma, passata alla lente dell’etnografia, la famiglia monogamica pareva un’inspiegabile eccezione del modernissimo occidente.

Illuminisimo

Alcunə tra quelle antropologhe e quegli antropologi si convinsero così che questa eccezione non era davvero tale. A ben guardare, anche nelle nostre latitudini la famiglia monogamica è tutt’altro che risalente, figlia com’è delle riforme illuministiche di fine Settecento e dei codici civili di inizio e pieno Ottocento. In passato, specie nella Roma antica e nel primo medioevo, i modi di fare famiglia erano molti, e non tutti erano legati al fatto biologico della procreazione.

Del pari, la famiglia ristretta era imbricata in nuclei sociali meno angusti, che incidevano sulla vita domestica e sulla sua regolazione, cioè, ad esempio, su chi e come si educava la prole o chi e come avrebbe ereditato i beni. È in ragione di ciò che alcunə storicə, come ad esempio Hans Hummer, sconsigliano di utilizzare termini quali “parentela” e “famiglia” quando si guarda a periodi che precedono l’evo moderno, dato che in essi l’organizzazione della vita intima e di quella domestica non si fondava certo su quella unità ai nostri occhi naturale (ma tutt’altro che tale) che è la coppia monogamica.

Questa spinta allo smascheramento di una tradizione “inventata”, come appunto la famiglia monogamica, sta alla radice degli studi sulle famiglie queer, cioè quelle compagini non fondate sull’amore romantico tra due e non incentrate su un contratto concernente l’uso esclusivo degli apparati genitali. Già negli anni Novanta del secolo scorso, l’antropologa Kath Weston parlava di famiglie fondate sulla “scelta”, in cui cioè il sangue – elemento sacrale della parentela occidentale – gioca un ruolo residuale e il rapporto con figlie e figli non presuppone, almeno non sempre, la trasmissione di materiale biologico.

Niente di nuovo in questo mondo povero d’idee, quindi, neppure sul fronte queer. La famiglia queer è un fenomeno molto diffuso nel tempo e nello spazio, concernente il tema di chi, come e quando ci si deve prendere cura di chi e cosa. Il che, ad avviso di chi scrive, dovrebbe aiutare a capire come produrre leggi che legittimino e regolino il fenomeno non comporti alcuno sconquasso nella veneranda cultura occidentale. Ma al di là della questione dei diritti, che pur rimane centrale, il tema della famiglia queer è oggi particolarmente utile per comprendere davvero e meglio cosa sia una famiglia.

Quando le studiose e gli studiosi summenzionatə si trovavano a descrivere una parentela diversa nelle forme e nelle regole da quella occidentale, dovevano comunque risolvere un problema preliminare: in assetti meno convenzionali, o presunti tali, quali sono i tratti che permettono di distinguere le relazioni tra persone di una famiglia dagli altri tipi di relazione? Se la parentela non è assimilabile all’amicizia, alla solidarietà, alla lealtà politica, cosa ne caratterizza la specifica natura?

Le risposte, com’è inevitabile in un campo carico di dissensi come lo studio sulla parentela, sono molte. Tra queste, vorrei qui richiamare la proposta della filosofa Judith Butler, che nella famiglia, comunque essa sia organizzata, vede un particolare rapporto di interdipendenza, come scrivevo sopra. Non importa se fondata o meno sul sesso, sulla genetica, sul sangue, sulla coppia monogamica, una relazione famigliare è determinata da un’«inquietante partecipazione all’essere dell’altrə», che genera uno speciale tipo di dipendenza reciproca, assieme ai notissimi annessi e connessi all’impronta di un’atavica ambivalenza: amore, odio, oblazione, desiderio di fuga.

Dipendenza reciproca

Varrà la pena, nell’accostarci a questo fenomeno vecchio come il mondo chiamato oggi “famiglia queer”, tornare a chiedersi cosa sia questo speciale tipo di dipendenza reciproca e come lo si possa organizzare al meglio, nella vita privata e in quella pubblica – al di là delle inveterate tendenze a pensare che la natura prescriva l’amore a due. Rispetto alla vita più o meno ordinata e più o meno angusta degli altri animali, l’animale umano rimane un disadattato cronico che sempre necessita di poter contare su altrə in momenti critici dell’esistenza, felici o tristi che siano.

La famiglia è quella protesi emotiva e tecnica con cui tentiamo di porre riparo alle nostre connaturate carenze: una rete di relazioni costituite da pratiche di obbligo, sostegno e cura con altrə che riteniamo particolarmente significativə e che amiamo (e odiamo). Sarà bene che intensi quanto inutili dibattiti sulla purezza delle nostre tradizioni lascino spazio a una nuova riflessione su come far sì che la legge dello Stato prenda atto di regimi d’interdipendenza che vanno emergendo – regimi né più né meno virtuosi, né più né meno problematici della famiglia monogamica.
 

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