A differenza del calcio, la pallamano è uno sport selettivo. Non basta avere le mani per giocarci: devono essere grandi abbastanza da afferrare la palla e mantenerla salda nel movimento.

Il professore di ginnastica alle medie ha sempre detto che non era uno sport da donne, perché le mani femminili sono di solito troppo piccole per abbracciare con fermezza una sfera che ha più di mezzo metro di circonferenza e pesa quasi quanto un vocabolario economico.

Mani da femmina

Le mie mani erano come quelle di tutte, ma a pallamano ho voluto giocarci comunque. Tra la seconda e la terza media ho ripetuto ogni giorno gli esercizi dei pianisti per aumentare la divaricazione delle ossa del metacarpo e ho sollevato decine di pesi per fortificare la muscolatura del braccio e migliorare la tenuta del polso.

Di quei mesi ricordo soprattutto la frustrazione, quando la palla mi cadeva di mano con facilità, a volte per il colpo repentino di un’avversaria, altre solo per la forza di gravità. A ogni fallimento risentivo le parole del professore di ginnastica che diceva: «Fai pallavolo, che almeno non la devi afferrare con una mano sola».

Ci sono voluti due anni e tutta l’espansione consentita dallo sviluppo perché riuscissi a tenerla abbastanza saldamente da potermi concentrare su un lancio in porta senza paura che mi cadesse.

Non volevo la carriera da sportiva, solo giocare fino al limite che mi sarei posta io. Se ci sono riuscita per tutto il liceo è perché non ho mai smesso di credere che sarebbe accaduto. Poi mi sono rotta l’osso sbagliato e la capacità di tenere le cose in equilibrio a dispetto della gravità mi è stata utile per altro.

Stanca di ossa rotte, a diciotto anni sono andata via di casa e ho iniziato a lavorare nel pub di uno che conoscevo, un posto di birre e taglieri dove mi pagavano a sufficienza per dividere l’affitto con un’amica che aveva continuato all’università.

Il pub mi piaceva soprattutto perché ci lavoravo solo la sera e di giorno mi restava il tempo per andare al centro sportivo salesiano, dove allenavo una squadra di pallamano maschile. L’avevo fondata io e il prete, all’inizio scettico, dopo un anno era contento. A me sarebbe piaciuto che i giocatori fossero femmine, ma il tentativo di costituire una squadra di ragazze si era rivelato un totale fallimento, a comprova che un professore di ginnastica può davvero fare danni, se gli lasci abbastanza tempo.

Allenavo i ragazzi tre volte a settimana e quella costanza era ripagata da un pubblico entusiasta che seguiva le nostre partite con numeri che rivaleggiavano con quelli del ben più storico club del calcetto.

La squadra

Non era solo perché vincevamo. La pallamano è un gioco spettacolare, che privilegia l’azione e non ha tempi morti. Adoravo insegnarla quasi quanto avevo amato giocarla. Mi piaceva anche la mia squadra.

A dispetto dei pochi anni di differenza che ci separavano, il rapporto con i ragazzi era insieme rispettoso e tenero, un’intimità difficile da spiegare a chi non ha mai praticato uno sport di squadra, con le sue contraddizioni di competizione e interdipendenza.

Ero figlia unica, non avevo competenze da sorella maggiore né minore, quindi non saprei dire se quello che avevo con loro fosse simile ad avere dei fratelli, ma era sorta l’abitudine, almeno con i tre più grandi, di trattenerci a parlare dopo l’allenamento anche per un’ora, spesso seduti sui materassini da riscaldamento, ma a volte anche fuori, quando il tempo si faceva più mite e si poteva restare con piacere sugli scalini del centro sportivo. A dire il vero a me gli scalini non piacevano granché. Sarà stato il basalto, una pietra porosa e poco resistente alle sollecitazioni, facile da scheggiare con le ruote delle biciclette che li sfidavano nelle discese, e infatti erano tutti fracassati.

Detestavo anche il loro colore, un grigio smorto che sembrava avere le stesse proprietà dei buchi neri, assorbendo senza rimandarla indietro persino la luce del tramonto che alla sera illuminava la facciata del centro sportivo.

Non facevamo niente di speciale, là fuori, se non chiacchierare, a volte bere una lattina e fumare, chi aveva il vizio. Avrei dovuto dire loro che non andava bene, agire il mio ruolo come un vice genitore, stigmatizzare i comportamenti distruttivi, ma non me ne è mai importato niente di insegnare strategie fuori dal campo, di genitori invadenti ne avevo avuti due di troppo.

Il ratto

Fu in una di quelle sere che all’improvviso da un tubo dello scolo delle acque reflue sbucò fuori un ratto. Era grosso, uno di quelli che si suppongono femmine, temibili matriarche di nidiate inestinguibili.

Non avevo nessun criterio per distinguere un topo maschio da un topo femmina, ma avevo sempre dato per scontato che se un genere spaventoso doveva esserci nel mondo dei muridi, non avrebbe potuto essere che quello femminile, che clonava da sé stesso topi su topi, colonie che intasavano intere fogne coi loro corpi grigi e lucidi, pelosi ma con le zampe oscenamente nude come la coda diritta, un quinto arto con funzione di timone nelle acque luride dei liquami sotterranei.

Non era la prima volta che vedevo dei sorci sbucare dagli anfratti che congiungevano il mondo superiore alle ombre del mondo di sotto, ma di solito erano emersioni fulminee, apparizioni che duravano il tempo di fiutare l’aria e tornare di sotto con chissà quale preziosa informazione olfattiva. L’animale di quella sera fece invece un errore fatale: si fermò a guardarci qualche secondo nella penombra. Uno dei ragazzi scattò in piedi per puro istinto e gli altri due lo seguirono, disponendosi in uno strano trittico intorno al topo, minacciosi. C’era tutto il margine perché la bestia fuggisse tra le loro gambe, ma per qualche motivo non lo fece, come se tra i corpi dei tre ragazzi scorresse un’energia invisibile che sentiva di non poter superare.

Nell’istante di paralisi collettiva che seguì fui forse l’unica a non riuscire a prevedere che cosa stava per succedere. Il ratto all’improvviso spiccò un balzo verso la figura più alta, quella che aveva di fronte, e il ragazzo, con una rapidità di riflessi che avrei voluto vedergli più spesso in campo, gli diede un calcio al volo, violentissimo e preciso, che mandò la creatura a diversi metri di distanza, quasi davanti agli scalini dove stavo seduta io. «Devi giocare a calcio» pensai incongruamente, mentre tutti e tre raggiungevano il topo per finirlo prima che uscisse dallo stordimento.

Tra grida e risate lo colpirono coi piedi, all’inizio con forza e poi sempre più blandamente, fino a quando smise del tutto di reagire. Allora se lo passarono dall’uno all’altro come una palla sgonfia e quando si fermarono l’animale era morto, con la struttura interna fracassata tenuta insieme dal pelo spesso, l’unica cosa che ancora gli garantiva una forma riconoscibile. Il muso non era più puntuto e dagli sfinteri usciva la poltiglia rossastra degli intestini.

La scena era stata rapida, forse cinque minuti, e i ragazzi alla fine si risedettero sudati e soddisfatti accanto a me, facendosi i complimenti a vicenda come dopo una partita vinta.

Mister

Non ero intervenuta per chiedere loro di fermarsi, perché detestavo i topi e non vedevo la ragione di interrompere quel macello, benché impari.

Tuttavia non mi associavo alla loro fierezza. C’era qualcosa in quello che avevo visto che mi turbava, aggiunto al fatto che il corpo del ratto sarebbe rimasto lì, esposto e maciullato, per tutta la notte. La mattina, ben prima dei netturbini, sarebbe stato materia per i gabbiani, in qualche altro strazio interspecie.

Mentre l’adrenalina della lotta scemava, guardai i ragazzi. Quello che si era alzato per primo per attaccare il topo era il più alto, tanto ben fatto quanto ignaro di esserlo. Il pubblico femminile veniva per lui, gli striscioni sulle gradinate erano espliciti, ma facevamo tutti finta di non saperlo. Fino a quella sera avrei detto che non avesse un temperamento aggressivo e in campo giocava da pivot più per carisma che per maggiore capacità di andare a segno. Vederlo seduto ansimare con la testa tra le gambe divaricate, i gomiti poggiati sulle ginocchia e lo sguardo al basalto sottostante mi comunicò un senso di profonda estraneità, come non l’avessi mai visto prima.

D’improvviso sollevò il capo e si alzò. «Devo tornare a casa, sennò mio padre mi ammazza.» Si accorse che lo stavo fissando e fraintese. «Mister, non mi guardi così, è un modo di dire, papà non mi tocca da quando andavo alle elementari».

Mi piaceva che mi chiamassero “mister”. Sentito da fuori, quel termine aveva strappato più di una risata, ma tra di noi non era una parola che indicasse un genere, piuttosto un’autorità, il giusto compromesso tra il nome proprio, troppo confidenziale, e il cognome con cui invece li chiamavo io. Segnava una distanza e allo stesso tempo era intimo, perché nessun altro fuori dalla squadra poteva usare quel titolo con me. Le gerarchie hanno bisogno di mantenere le distanze per consentire l’unica vicinanza che serve, quella efficiente. Non importava quindi che fuori ridessero, essere chiamata “miss” avrebbe fatto più ridere noi.

Gli altri ragazzi si alzarono a loro volta, commentando a ruota: «Il mio non mi ha mai picchiato, ci credi?». «Anche a me, è sempre bastato lo sguardo. Ogni volta che mi puntava quando facevo qualche cazzata mi immaginavo tutte le botte che non mi dava e basta, finivo lì».

Le botte

Risero e mi guardarono, sospesi tra il congedo già annunciato e la strana conversazione che era appena cominciata. Compresi che tutti e tre si aspettavano che aggiungessi un tassello di esperienza a quella teoria di racconti di educazione familiare e non seppi che dire. Avrei dovuto dichiarare la verità? Dovevo rivelare che mio padre mi aveva picchiata per tutta l’infanzia e l’adolescenza e che aveva continuato fino al giorno in cui me ne ero andata di casa? Mi immaginai per un istante a spiegargli la rottura dello scafoide che aveva chiuso il mio percorso di giocatrice e mi parve un’ipotesi fuori luogo. I loro padri non li picchiavano, cosa avrebbero pensato del fatto che il mio dietro alla porta, tra gli ombrelli, teneva un oggetto appositamente dedicato alla mia correzione? Ne sarebbero stati scioccati e bastò quello a farlo diventare un silenzio necessario. È negli occhi degli altri che nascono i nostri segreti. Del resto ero già troppo sorpresa io a causa di quello che stavano dicendo. Esistevano davvero famiglie dove i figli non venivano picchiati? Mia madre mi aveva sempre detto che succedeva in casa di tutti, che era normale e che chi diceva il contrario mentiva, perché ogni famiglia conosce la verità. Le avevo creduto fino a quel momento, ma le parole dei ragazzi, la loro disinvoltura nel dichiarare eccezionale un metodo che per me era stato quotidiano, mi instillavano il dubbio che forse esistessero davvero padri per cui l’educazione fisica aveva una declinazione diversa da quella che aveva formato me. Non dissi niente e i ragazzi uno a uno se ne andarono, inforcando i sellini delle bici bagnati dall’umido della sera. Io rimasi sugli scalini con la scusa di fare una telefonata, ma in realtà non pensavo di chiamare nessuno.

La sepoltura

A trattenermi era il corpo del topo. Il fatto che stesse sulla strada mi era insopportabile. In un primo momento pensai di gettarlo nei cassonetti appoggiati contro il muro del centro sportivo, cinque contenitori differenziati che avrebbero dovuto convincerci che quelli che chiamavamo rifiuti fossero una risorsa. Non avrei saputo dire che tipo di risorsa poteva rappresentare il corpo del ratto, però sarebbe stato sensato gettarlo nell’umido organico, mandarlo a fermentare in chissà quale cloaca di periferia.

Lo avrei fatto, ma qualcuno aveva già ficcato dentro al cassonetto il cartonato di un cantante cinese, o forse coreano, una di quelle sagome a grandezza naturale che si comprano le adolescenti nella fase in cui sono fan delle boy band. L’idea del topo massacrato e del cartonato del tizio cinese insieme era incongruente. Presi un’altra decisione. Cercai le chiavi nella sacca e rientrai nello spogliatoio. Lo sgabuzzino degli attrezzi era aperto e trovai subito quello che cercavo. Con la paletta che i ragazzi del calcetto usavano per risistemare l’erba del campo scavai un piccolo buco nel terreno vicino alla recinzione dello spazio esterno e con cura ci seppellii il ratto.

Sollevarlo con l’attrezzo fu uno schifo indicibile, era ancora caldo e dal corpo pesto esalava un vapore leggero che lo rendeva vivo in un modo più insopportabile di quando poteva muoversi e scappare. La fossa che avevo scavato non era abbastanza profonda e quando finii di seppellire la bestia rimase sul terreno un piccolo rialzo, come un gonfiore, il bernoccolo di una botta. Chiunque avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. Allora ci salii sopra e saltai per schiacciare il più possibile la terra contro il corpo dell’animale.

Non fece alcun rumore a quella pressione, ma sentirlo cedere sotto lo strato di terriccio e brecciolino mi fece venire i conati. Quello che ancora non era stato rotto dai calci dei ragazzi lo fracassai io in quel modo. Alla fine la terra era pari. Così mi parve.


Il testo è un estratto da Tre ciotole, Strade blu, Mondadori.

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