Nel 1884 una delle più diffuse riviste di velocipedismo, sulla scorta dei suggerimenti di Paolo Mantegazza, autore nel 1854 di Fisiologia del piacere, elenca una serie di considerazioni sulle gioie che l’uomo prova nel condurre una bicicletta allorché si sente attratto da «una forza irresistibile che lo spinge a procurarsi quello spasso». E il «grande piacere» che l’uomo prova alla guida della bicicletta viene dimostrato «colla serena espressione della fisionomia e del riso quando si trova ad aver fra le mani la congegnosa macchina».

In definitiva, «o tattica, o psicologica, o reale o illusoria, o magari tutti questi quattro elementi, il velocipedistica nell’esercizio [...] delle sue funzioni prova e gode, senza dubbio, di un grande piacere». E quali sono i godimenti di cui parla uno dei massimi rappresentanti della medicina positivista? Le riviste dedicate alla bicicletta ritengono che quel veicolo possieda la capacità di trasmettere una poesia che fa spesso somigliare il guidatore «all’arcangelo dell’apocalisse» che «vola e l’acre profumo dei fiori campestri l’inebria, lo scuote; vola e nell’immenso risveglio della natura risvegliasi in lui la forza, l’ardore».

E, in un evidente eccesso di idolatria per la modernità e i suoi simboli, ci sono quanti sostengono che la bicicletta riveste un grado di poesia superiore a quello del cavallo. Infatti pur essendo «bello, elegante e snello» il corpo del cavallo tende negli anni a deformarsi. La bicicletta invece «possiede una forma sommamente artistica e per questo appunto eminentemente poetica». Divagazioni poetiche a parte, la bicicletta, a cominciare dalla fine dell’Ottocento, entra come elemento di valorizzazione non secondario di quella cultura del corpo che costituisce una delle caratteristiche più innovative del positivismo italiano di cui Mantegazza va considerato uno dei massimi rappresentanti.

Gioia fisica

All’inizio del Novecento Renato Serra aggiorna quelle considerazioni e attribuisce alla bicicletta la capacità di suscitare una vera e propria «gioia fisica, la sola gioia verace ch’io mi conosca, quella che mi ristora e mi rifà». Nei suoi versi costanti sono i riferimenti al classicismo: l’andatura sul «destrier fremente», viene da Serra assimilata a quei farmaci ricordati nella mitologia greca come capaci di lenire i dolori. Tant’è che quando Serra, lontano dal paese natale, rivela ai propri cari uno stato di tristezza confessa che è dovuto principalmente alla mancanza della sua «meravigliosa bicicletta» e si lamenta che «le belle strade, bianche tra le lunghe colonnate di pini o di pioppi vibranti con fresco brusìo al maestrale non fuggono più sotto le gomme sonore».

La bicicletta, dunque, nel periodo delle origini, viene esaltata come mezzo popolare di locomozione, oppure come veicolo di uno sport che esalta gli appassionati. O, ancora, è considerata uno strumento di democrazia che avvicina le classi sociali. Ma, soprattutto, viene ritenuta come il principale antidoto contro le tristezze della vita.

Fino agli anni Cinquanta del Novecento la bicicletta era stata sia uno strumento di lavoro, sia un mezzo che consentiva per la prima volta l’utilizzo del tempo libero a larghi strati sociali. Qualcuno ricorda che prima dell’avvento della motorizzazione di massa la domenica «si partiva tutti insieme, ogni famiglia con le sue biciclette, super cariche, borse davanti, canestri di dietro e figli sulla canna, ci si fermava sul campo […] con frittate, polli, pomodori e melanzane arrosto» (da Fratesi, Storie in bicicletta).

Dalla bici all’automobile

Qualche anno più tardi alla merenda campagnola si è sostituito il pic-nic in automobile il cui rito domenicale entra stabilmente a celebrare una nuova conquista del tempo libero degli italiani.

Dino Villani, fra i più originali creatori della pubblicità che accompagna il consumismo degli anni Sessanta, così annota il cambiamento di orientamento degli italiani: «Ora il regalo importante richiesto ai genitori od ai nonni dai giovinetti è: prima il motorino e poi la moto di grossa cilindrata e, a diciott’anni, l’automobile. Una volta bastava la bicicletta e non so se i giovani di oggi provino maggior soddisfazione viaggiando a motore, di quella che provavamo noi muovendo i pedali del luccicante cavalluccio a due ruote».

Il mutamento dei gusti nella mobilità segna anche una mutazione antropologica degli italiani. Nella ricerca ossessiva del piacere l’Italia si trasforma in una enorme «spiaggia», secondo la felice espressione di Ennio Flaiano che registra la frenetica ricerca del divertimento degli italiani. E l’oggetto simbolo della spensieratezza di quegli anni diviene l’automobile. È un’Italia un po’ cialtrona quella che viaggia sulle quattro ruote alla ricerca della felicità a tutti i costi e che Dino Risi immortala in Il Sorpasso. Lo stesso paese che Federico Fellini, in 8 e mezzo prima e in Roma poi, rappresenta nei tic dei nostri connazionali imbottigliati nel traffico. È un’Italia la cui trasformazione dei costumi è bene espressa dalla diversa psicologia del ciclista e del pilota dell’automobile. Mentre nel guidatore della bicicletta prevalgono tratti come l’umiltà, la gentilezza e l’umanità, l’automobile – sostiene Carlo Sgorlon, cantore della civiltà contadina e della saggezza popolare, «muta persino la personalità del guidatore»: «Sedersi al volante significa a volte dire addio al proprio dottor Jekyll, e far emergere dal profondo il nefasto mister Hyde che ognuno si porta dentro senza saperlo. L’automobilista è aggressivo per una sorta di fatalità […] Volano le offese, le bestemmie, i pugni; e mani omicide arrivano a stringere cacciaviti trasformati in stiletti».

Alla felicità contemplativa del ciclista l’automobilista sostituisce quello che, sempre Sgorlon, definisce uno degli «dei falsi e bugiardi» del miracolo economico: il culto della velocità a tutti i costi. Mentre Franco La Cecla, antropologo della contemporaneità, si sofferma sulla «isterica fissità dello sguardo sul parabrezza e l’idiotismo di chi sta seduto».

Sinonimo di felicità

Dalle considerazioni che antropologi e filosofi sviluppano a partire dal 1973, in occasione della crisi energetica, la bicicletta si è trovata al centro di un dibattito che l’ha elevata a simbolo della democrazia per la sua accessibilità alla guida senza particolari difficoltà, per la sua capacità a ridurre gli incidenti stradali e aumentare nel contempo la sicurezza. O, ancora per il suo contributo alla soluzione della questione ambientale attraverso la riduzione dell’inquinamento.

Più di recente il settimo Rapporto sulla felicità nel mondo, presentato il 1 aprile 2019 all’università Bocconi, registra che i dieci paesi più felici al mondo sono quelli in cui la bicicletta è maggiormente adottata e dove il risultato emotivo di un largo uso della bicicletta è sicuramente il buon umore. Non a caso il termine felicità e i suoi sinonimi, bonheur in lingua francese, happiness nell’idioma anglosassone, indicano gli stati d’animo che più frequentemente vengono evocati nella manualistica recente sull’uso della bicicletta.


Stefano Pivato è autore del libro La felicità in bicicletta, edito da il Mulino

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