Per raccontare la storia della secolarizzazione Jürgen Habermas ha dovuto scrivere due volumi di centinaia di pagine, rifare gran parte della storia della filosofia e partire dall’età di Socrate e di Confucio, per arrivare alla nostra società post-metafisica e post-secolare.

Per raccontare la sua versione della secolarizzazione a Diego Fusaro è bastato il suo ultimo libro, La fine del cristianesimo, ed è bastato partire da vicino, da molto vicino. Addirittura, dal passaggio dal pontificato di Ratzinger a quello di Bergoglio, al massimo dall’odiato Sessantotto e dalla nuova morale sessuale.

Il motivo di questa vertiginosa semplificazione è presto detto: per Fusaro la secolarizzazione, la rinuncia alla trascendenza, al sacro, la sdivinizzazione del mondo non sono fenomeni che coincidono con la parabola stessa della civiltà, ma sono la radice di ogni nostro male presente.

Col tramonto della fede, con la rinuncia a credere in un mondo al di là di questo mondo e in una vita al di là di questa vita si perderebbe infatti ogni possibilità di pensare un ordine sociale diverso da quello esistente, una società che non si basi sul mercato e sul consumo. Si compirebbe la rinuncia al totalmente altro, alla «ulteriorità nobilitante di qualcosa di più grande in cui sperare: il paradiso in cielo dei cristiani e il paradiso in terra dei marxisti».

Una caricatura della secolarizzazione

Una ricostruzione così scorciata e caricaturale del cammino della secolarizzazione e la sua compressione nell’immediato presente nasconde due operazioni così scoperte da tradursi non in disinvoltura ma in rozzezza.

La prima, e tutto sommato più indolore, consiste nell’utilizzare il richiamo alla dimensione del trascendente per non dire assolutamente nulla della trasformazione della società che si invoca ad ogni pagina; la seconda, molto più grave, si traduce nel dar fiato a tutte le polemiche più spicciole e becere contro gli spazi di libertà conquistati, contro i diritti civili, contro le politiche di accoglienza, insomma l’armamentario scontato della destra sovranista, alla quale ormai Fusaro appartiene a pieno diritto.

Se il sacro è l’opposto dell’esistente, lo spazio non omogeneo e il tempo «parmenideo» (un bell’ossimoro, senza dubbio), anche del futuro che Fusaro ci vorrebbe prospettare non veniamo a sapere nient’altro che si tratterebbe di «modellare il regno terreno secondo i princìpi del regno dei cieli», che la sua temporalità sarebbe del tutto diversa da quella del progresso, che la sua organizzazione sarebbe incommensurabile con quella che domina nel regno della quantità.

Contro la modernità

Se si cerca di capirci qualcosa, c’è da rabbrividire. Per esempio, la saldatura tra istanze religiose e lotta per la liberazione sarebbe confermata, nientemeno, che dalla rivoluzione iraniana del 1978-79. Fusaro ripete senza battere ciglio le frasi pronunciate da Michel Foucault nel vivo della rivolta degli ayatollah, quando scopriva che la religione poteva essere il volto della insubordinazione rivoluzionaria.

Ma l’abbaglio che in Foucault poteva essere frutto della difficoltà di leggere il presente diventa, a distanza di quattro decenni e di fronte alle violenze della polizia morale sulle donne iraniane e alle condanne a morte di giovani per il solo fatto di aver manifestato, qualcosa di enorme, di vergognoso, di osceno.

Ma questa visione è coerente con quella che Fusaro ha dell’Islam, nel quale vede quella capacità della religione di rimanere fedele a sé stessa che la religione cristiana avrebbe perduto arrendendosi alla modernità, salvo poi paventare, come una sorta di Michel Houellebecq nostrano, che la emigrazione islamica sia il grimaldello per la sostituzione etnica della popolazione italiana escogitato da non si sa bene quale ordine mondiale.

L’insistenza di Fusaro nel giocare il pontificato di Ratzinger contro quello di Bergoglio, lo spreco dell’aggettivo «eroico» quando si tratta del papa tedesco, si spiega tutta con la foga che mette nell’indicare il peccato originale della Chiesa di oggi nel Concilio vaticano secondo, che avrebbe sancito la «resa» nei confronti della modernità. E ci fa capire che la vera bestia nera di Fusaro è la modernità stessa e gli spazi di libertà e autonomia che ha garantito a uomini e donne.

Deliri e onnipotenza

È qui che si scatenano le sue ossessioni, che sembrano riassumersi nell’orrore per la «dissoluzione neolibertaria di ogni tabù», la «liberalizzazione integrale dei costumi», l’ostilità alla procreazione e alla famiglia.

Quando si parla di morale sessuale Fusaro perde ogni contatto con la realtà, e nel suo libro precedente Il nuovo ordine erotico si spingeva a sostenete che prima dell’avvento della società dei consumi la sfera privata degli individui fosse salvaguardata, incurante delle ingerenze pesantissime di chiesa e ordinamenti sociali sulla vita intima delle persone, e soprattutto delle donne.

Qui i suoi bersagli sono i giovani senza dio e senza patria, prigionieri del loro desiderio, il «consumismo erotico», la «new left arcobalenica», la dissoluzione delle identità di genere, di religione, di nazione. Anche la nazione, perché tutto l’inneggiare di Fusaro alla «comunità umana in genere», garantita dalla fede, non gli impedisce di rivendicare il ruolo delle identità nazionali, la sovranità degli stati come garanzia di controllo politico sulla economia.

Il delirio antimoderno di Fusaro non si arresta neppure davanti al ridicolo di opporre nel suo discorso, come valori contrastanti, il crocifisso e l’immancabile presepe al dilagare degli schermi (dove, grande scoperta, impererebbe ancora Hollywood) e i selfie.

Scomodare la filosofia

Se si tratta di attaccare la società multiculturale, la moda (esempio sommo di «cannibalismo mercantile») e le unioni civili, diventa francamente indigeribile il dispiego di riferimenti filosofici che Fusaro ammannisce ai suoi lettori, svariando dal solito Heidegger degli dèi che sono fuggiti al Nietzsche della morte di Dio, da Severino della fede nell’immutabile a Hegel che sarebbe il teorico della portata veritativa della religione, anziché l’araldo del suo possibile tramonto nella filosofia, come sta a dimostrare, per altro, la parabola della sinistra hegeliana.

Ma che volete, Fusaro è fatto così: l’essere diventato un abitatore dei social e un frequentatore di Casa Pound non gli impedisce di continuare ad usare un lessico che pare la parodia di un giovane che muove i primi passi nella carriera universitaria e che teme di apparire poco accademico se non scrive «riorientamento gestaltico del pensiero» e se non mette tra parentesi, non si capisce a beneficio di chi, l’originale tedesco o quello greco antico delle parole anche più normali che usa.

È una prosa piena di birignao da vecchio studioso, di «mi permetto di rinviare al mio studio», «in coerenza con la teoria da me altrove delineata», «come più estesamente si è argomentato». Fusaro non scrive «al contrario», ma sempre «au contraire», perché il francese fa fino, parla spesso al plurale, riesce a citare quattro propri testi nel giro di un solo paragrafo.

Spesso però il linguaggio lo tradisce, e spuntano la «plutocrazia» che ha il sapore del ventennio, le «radici cristiane dell’Europa», la triade Dio-patria-famiglia. Altro che Fichte, Schelling, Hegel.

Viene voglia di sbottare, come nell’unica commedia di Racine a proposito di due che litigano per un pollo a colpi di citazioni filosofiche: «Si tratta di un cappone, e non di Aristotele», e il cappone è la volontà per niente dissimulata di offrirsi come ideologo delle più scontate parole d’ordine della nuova destra.

La nostra premier è un’affezionata lettrice della Storia infinita di Michael Ende, alla quale si è ispirata per dare un nome, Atreju, ai festival giovanili di Fratelli d’Italia. Per non essere da meno, Fusaro legge un po’ abusivamente le fantasie dello scrittore tedesco come un manifesto dell’opposizione al «dilagare contemporaneo del nichilismo».

E in effetti, se dobbiamo andare per somiglianze, non fatichiamo molto a immaginare Fusaro, che anni fa ha fondato un partito, rapidamente evaporato, che si chiamava Vox Italia, affacciato ad un palco a gridare «Sono Diego, sono un uomo, sono un padre, sono italiano, sono cristiano». E aveva detto che annunciava il totalmente altro.

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