Un buon modo per capire quanto sia centrale la questione della scarsità (o dell’abbondanza) nel valore che diamo alle cose e alle professioni in un’economia di mercato è guardare al declino socio-economico della figura del giornalista, in particolare del giornalista che scrive.

Figura quasi mistica nell’era in cui aveva il monopolio dell’informazione – quella cioè in cui una storia o passava dalle colonne dei giornali o non esisteva – incomincia a perdere di valore con l’avvento della Tv, quando come prova ultima di esistenza si afferma il motto universale “l’ho visto in televisione”, e declina infine molto rapidamente fino all’estrema periferia delle professioni borghesi con l’avvento di internet, grazie al quale la realtà è continuamente ripresa e commentata in tempo reale dai suoi stessi creatori e ogni cosa nasce già rappresentata a patto che sia disponibile una connessione mobile.

Il valore economico dell’informazione in questa fase si avvicina pericolosamente allo zero. La crisi della professione è ormai storia acquisita e ben nota, così come è noto il problema per il quale, nonostante tutto l’incessante prodursi di tweet, stories e di like di forme e fogge sempre diverse, le democrazie evolute continuino ad aver bisogno di un giornalismo credibile e dotato degli strumenti necessari per fare il suo mestiere, come la capacità di viaggiare, la protezione legale o l’avere a disposizione un gruppo esperto con cui confrontarsi.

A questi ne aggiungerei un altro mai citato ma a mio parere altrettanto, se non più, necessario: la disponibilità di tempo per chi scrive per continuare a formarsi culturalmente ed evitare così di arrivare nei luoghi, avere le coperture legali (cose in sé già rarissime) e non capire quello a cui si sta assistendo perché a forza di scrivere due articoli al giorno non si apre un libro dall’università.

Tutte queste condizioni non sono però affatto a buon mercato. La questione cessa insomma di essere sindacale (il futuro dei giornalisti) e diventa sistemica (il futuro della democrazia), o meglio le due cose si intrecciano perché è difficile che un servizio venga svolto dignitosamente se chi lo svolge non viene pagato altrettanto dignitosamente.

Prima o poi ci sarà una fuga verso altre professioni e nel giornalismo rimarranno principalmente i mantenuti, i rancorosi, gli idealisti, una dinamica che contribuisce a spiegare il declino qualitativo della professione nelle fasce più giovani della popolazione, spesso (ma per fortuna non sempre) ossessionate da questione identitarie, vittimismo (o senso di colpa, gli opposti si attraggono), e una pressoché totale mancanza di sfumature nell’analisi della realtà.

Mali tipici di alcune età ma che vengono estremizzati da retribuzioni che sfiorano il ridicolo e dalla diffusa condizione di sudditanza economica nei confronti delle generazioni precedenti.

Economia dell’attenzione

Ciclicamente nascono iniziative imprenditoriali che cercano una soluzione per il problema del dare un valore all’informazione giornalistica in un ecosistema che presenta un dominio darwiniano assoluto delle informazioni non verificate o comunque spontanee.

Molti esperimenti in passato si sono schiantati su un’evidenza dolorosa: in un mercato dove l’attenzione è l’unico valore, l’informazione giornalistica “di qualità” (se mi si passa il termine che rischia spesso di significare tutto e niente) non soltanto non è in grado di competere con le altre informazioni ma non è neppure in grado di ripagarsi.

Concretamente questo significa che il video di un animale buffo che butta un telecomando giù da un tavolo produce in termini di pubblicità una cifra infinitamente più alta rispetto a un’inchiesta sulla criminalità organizzata che può essere costata mesi di lavoro e decine di migliaia di euro.

Ormai è evidente come nel mercato gratuito dell’attenzione il giornalismo diventi, a malapena, sostenibile solo se fa ampie concessioni allo scandalismo, per degli esempi concreti basti guardare alla schizofrenia con cui i maggiori siti di informazione italiani hanno affrontato la pandemia di Covid: continui annunci di cure miracolose non supportati da evidenze scientifiche, grande spazio fornito a cialtroni negazionisti denominati esperti e ogni giorno in pagina almeno due o tre versioni tra loro non compatibili di questioni non opinabili, per non parlare dei titoli ingannevoli posti in cima ad articoli che in realtà dicono tutt’altro.

Effetti deleteri della disperata lotta per l’attenzione, una torsione continua della realtà sull’altare di visualizzazioni vendute a blocchi di migliaia e sempre a prezzi irrisori.

E questo non è nemmeno l’unico dei problemi. Le piattaforme tecnologiche attraverso cui passa la maggioranza del traffico fanno e disfanno in assoluta libertà le proprie regole di funzionamento e un piccolo cambio nell’algoritmo può significare il disastro economico per gli editori, così come può far diventare dall’oggi al domani insensati degli investimenti che fino al giorno precedente sembravano intelligenti.

Insomma più che in simbiosi o in una filiera, editori e giornalisti vivono in una condizione di sudditanza assoluta nei confronti dei social network e dei motori di ricerca. Per questi motivi è diventato finalmente chiaro a tutti che per provare a fare davvero del giornalismo di qualità l’arena del “free” non è quella giusta, a meno di non lavorare in perdita, cosa che però genererebbe una seconda domanda “per tutelare quali interessi lo si sta facendo?”.

Nuove soluzioni

Si sta perciò oggi affermando, probabilmente con molti, troppi anni di ritardo, l’idea che anche online l’informazione si debba pagare se la si vuole rispondente a degli standard qualitativi diversi dal flusso dello spontaneismo e del volontariato.

In questo mondo editoriale in cui si moltiplicano i paywall, le forme di abbonamento digitali, i contenuti premium, è nata anche Substack, una piattaforma di newsletter che promette ai giornalisti indipendenza non solo economica ma anche dagli editori e dai giornali. Insomma, disintermediare attraverso un servizio di newsletter in abbonamento, mettendo in contatto direttamente i giornalisti con il loro pubblico.

Un’iniziativa che si è già dimostrata utile in questo periodo di cancel culture sempre più opprimente, in special modo nei paesi anglosassoni, per alcuni giornalisti che in questo modo hanno potuto continuare a far il loro lavoro anche fuori da newsroom intossicate dall’ideologia: alcune firme fra loro molto distanti come Andrew Sullivan o Glenn Greenwald si sono avvalse con successo di questa possibilità, moltiplicando i propri introiti (Sullivan dichiara di essere passato da 200mila dollari a 500mila all’anno grazie a Substack).

Vale però la pena di cercare di capire più nel dettaglio quali siano le prerogative di una soluzione di questo tipo.

La prima cosa da notare è che con Substack si esce da un’economia dell’attenzione solo fino a un certo punto perché l’accesso è libero ma nell’offrire anticipi e aiuti economici ai giornalisti l’azienda segue un criterio di analisi dell’engagement che gli autori sono in grado di generare sui social network, ambiente la cui architettura premia alcuni atteggiamenti (solo per fare alcuni esempi: polarizzazione, toni forti, attacchi ai nemici, immediatezza, universo morale ultra definito, assertività, brevità) il che equivale già a circoscrivere di molto il perimetro del giornalismo “di successo”.

Si potrebbe obbiettare che è normale che i giornalisti con più seguito ottengano maggiore interesse e siano destinatari di questo genere di iniziative economiche, un’affermazione che contiene un fondo di verità ma credo tradisca anche quanto ormai si tenda a fare un’equivalenza assoluta fra social network e realtà, accettando come un dato di fatto l’unilateralità con cui le piattaforme plasmino il nostro modo di pensare e di vedere il mondo, giornalismo compreso.

Il problema della lotta per l’attenzione così come concepita nell’ambiente digitale è quindi spostato a valle, perché alla fine coloro che generano utili per sé e per Substack saranno comunque in larga parte gli stessi vincitori della sfida per l’attenzione nell’ambiente free.

È tuttavia possibile anche che una parte dei giornalisti portino dentro Substack un seguito costruito anche in altre maniere: carriere su giornali e riviste, libri, documentari, radio, televisione, podcast, comunità sociali, o più probabilmente un misto di tutto questo.

Se da un lato creare una comunità di abbonati su Substack libera dai limiti delle linee editoriali altrui, sottopone però il giornalista all’approvazione costante in termini di abbonamenti e dati e feedback della propria comunità e questo può senz’altro portare a una forma autoindotta di conformismo, può cioè fermare il percorso di crescita e cambiamento intellettuale del giornalista.

Un paio di esempi concreti: immaginiamo che l’autore di una newsletter sull’energia, con un pubblico liberale, favorevole all’impresa sempre e comunque, scopra che dietro un grosso contratto che genera migliaia di posti di lavoro ci siano delle conseguenze collaterali meritevoli di essere riportate, anzi in grado di far cambiare il giudizio del pubblico sull’intero progetto.

Dovrebbe darne notizia rischiando di perdere nel giro di poche ore una fetta sostanziale di quegli abbonati da cui dipende la sua capacità di pagare l’affitto e l’apparecchio per i figli?

Stesso scenario, diversa declinazione: newsletter ambientalista, la notizia è una vicenda in cui un gruppo di ambientalisti rischia per eccesso di ideologismo di far saltare un progetto che in realtà è perfettamente sostenibile e, anzi, porterebbe un grosso beneficio al territorio e alla popolazione interessata, popolazione che per inciso è alle prese con una povertà sistemica e priva di altre vie d’uscita.

Cosa dovrebbe fare il giornalista? Dare la notizia nella sua forma completa e scommettere sull’apertura mentale di un pubblico che in larga parte si sarà senz’altro abbonato per sentire e risentire sempre la stessa versione dei fatti o mantenere piuttosto la sua sicurezza occupazionale?

La sostenibilità della disintermediazione

Per una di quelle frequenti distorsioni narrative attorno a cui è strutturato il nostro cervello è sempre molto facile individuare il male – in questo caso la possibilità di censura – in una singola persona (l’editore, il direttore, il caporedattore), meno agevole è riconoscere i rischi nascosti nel meccanismo di consenso delle folle.

Oltretutto questo modo di ragionare non tiene in considerazione un fatto statistico: mentre un singolo direttore, o un editore, possono talvolta essere illuminati e sostenere il pluralismo e difendere la libertà del loro autore, in un gruppo sufficientemente ampio di persone è matematico che una parte non accetti deviazioni dalla linea, generando così un danno economico potenzialmente importante per il giornalista e spingendolo quindi a cercare sempre il minimo comune denominatore del conformismo, a non toccare cioè gli equilibri esistenti perché in ogni caso finirebbe danneggiato.

Una percentuale, quella dei fedeli alla linea più che alla realtà dei fatti, che sarà tanto più alta quanto più quel pubblico sia stato precedentemente coltivato e raccolto sui social network che delle differenze bianco/nero si alimentano prima di qualsiasi altra cosa.

Si obbietterà che è normale, in fondo il giornalista svolge un servizio commerciale. Bene, ma non stavamo parlando di come creare le condizioni che rendano possibile un racconto quanto più rigoroso possibile della realtà, ovvero il famigerato “giornalismo di qualità”, e sui modi di tutelarlo dagli infiniti interessi che sempre lo minacciano?

Anche gli interessi immediati degli abbonati, non filtrati da una testata che unisca tutta una serie di autori e una certa ampiezza di posizioni diverse, possono rappresentare un ostacolo al racconto dei fatti. La realtà non dà fastidio solo ai potenti, dà fastidio agi esseri umani in generale, specie quando non è quella che hanno ordinato quando hanno messo mano alla carta di credito.

La forma del giornale, o della rivista, è anch’essa sottoposta al consenso del mercato, ma il più delle volte tollera una variabilità maggiore e i tempi di reazione sono meno immediati per cui meno emotivi e conseguentemente più plurali.

Piccola postilla alla sostenibilità della totale disintermediazione: molti giornalisti che lavorano con Substack parlano di settimane lavorative da 50-60 ore, non sono obbligati da nessuno, ovviamente, ma scrivere e nel contempo coltivare una community comporta uno sforzo notevolissimo, anche e forse soprattutto in termini psicologici perché i giornalisti, specie quelli che dipendono direttamente dal loro pubblico, non sono immuni alle infinite metriche di cui è cosparsa la vita online, i già citati retweet, like, cuoricini, abbonati, tempi di lettura, provenienze, demografiche, eccetera.

Il giornalista modello Substack si ritrova così a ricercare, scrivere, essere almeno un po’ un buon “politico” per assecondare i propri abbonati, curare i propri social network e controllare continuamente i dati come un analista, ovvero finisce per svolgere tre o quattro lavori contemporaneamente.

Il giornalista diventa sia azienda che capopopolo, con conseguenti oneri, responsabilità e mediazioni che non può più scaricare sulla sua azienda editoriale ma deve interiorizzare. Sul mercato della lingua inglese pochissimi di questi giornalisti hanno giri d’affari sufficienti a stipendiare degli assistenti, figuriamoci su quello, minuscolo, della lingua italiana. Insomma, la vita agra in versione digitale.

La questione in fondo è sempre quella della ricerca della libertà intellettuale, pensare che in automatico un pubblico di abbonati possa garantirla sempre e comunque meglio di un editore è una visione abbastanza ingenua del problema: ogni assetto ha i suoi costi e i suoi benefici.

La civiltà della stampa è stata una civiltà di pluralismo, di una certa condivisione attorno al concetto di libertà di espressione e di interessi fra loro confliggenti, interessi tra cui un giornalista poteva muoversi per cercare di difendere la propria libertà intellettuale e la propria ricerca della verità se lo desiderava (desiderio non universale ma nemmeno così raro come lo si dipinge).

La civiltà digitale è una civiltà di sciami, spesso di demagogia e di unilateralità, una civiltà di masse, seppur mediate dalle grandi aziende tecno-capitaliste, e pone al pensiero libero e individuale delle sfide che in parte sono quelle di sempre e in parte sono molto diverse.

Nella vita comunque è sempre possibile sbagliarsi per cui quando, durante le ricerche per questo pezzo, sono finito sul sito di Substack ho creato una newsletter. Per il momento è gratuita, non posso escludere che lo rimanga per sempre (ma non posso neppure escludere il contrario) né garantisco che la userò di frequente, quello di cui mi sento però ragionevolmente certo è che se mi seguirete prima o poi ci troveremo in disaccordo su qualcosa, questo sì. Però potrebbe non essere così male. A voi la scelta: https://danielerielli.substack.com/

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