La maggioranza di noi ha salutato con gioia la riapertura di bar, osterie, taverne, pub. Ci sono delle differenze, talvolta microscopiche talaltra sfuggente tra i diversi termini, ma proviamo qui a usare e con allegra libertà tutto quanto abbiamo a disposizione per definire i luoghi del bere e talvolta del mangiare. Del resto, non saremmo certo i primi a godere di tanta abbondanza linguistica.

Vocabolari

Quando gli inglesi importarono nell’America settentrionale le abitudini alcoliche, hanno presto iniziato a preoccuparsi di produzione e smercio. Anche tra i nativi, che non conoscevano affatto i distillati e solo marginalmente i fermentati. Lo ha scritto acutamente il marinaio inglese Thomas Walduck, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, grande viaggiatore e di conseguenza conoscitore delle cosiddette Indie occidentali, le cui coste aveva percorso in lungo e in largo.

In una lettera inviata nel 1708 a un nipote residente a Londra, con felice sintesi Walduck aveva annotato le differenze dell’altro mondo. Scrisse che la prima cosa fatta dagli spagnoli in tutti i propri insediamenti era stata costruire una chiesa; gli olandesi, dal canto loro, si preoccupavano innanzitutto di edificare un forte; «ma la prima cosa fatta dagli inglesi, nella più remota parte del mondo, come tra gli indiani più selvaggi, è aprire una taverna o un locale dove bere». Non aveva torto.

A Salisbury, North Carolina, un villaggio che nel 1755 contava sette o otto case, quattro di queste erano saloon. Nell’Inghilterra preindustriale le taverne erano i luoghi pubblici più diffusi e al loro interno vigeva una rigida distinzione tra quelli destinati ad avventori di alto e di basso rango. Nei primi si beveva elegantemente, seduti composti attorno a un tavolo e impegnandosi in discorsi di argomento elevato, nei secondi le scene tramandateci parlano all’opposto di dissolutezza, risse frequenti e licenze sessuali.

Veniamo alle definizioni: il modo in cui i coloni inglesi identificavano i luoghi predisposti, tra le altre cose ma più di ogni altra, a bere alcolici erano sì diversi, ma destinati tutti a descrivere lo stesso tipo di locale. Per l’età moderna dunque, fossero essi saloon, oppure taverne, inn, bar o pub possiamo considerarli sinonimi, nella consapevolezza della ricchezza e varietà del vocabolario. E i vocabolari, si sa, sono importanti per sintetizzare cultura e abitudini di un gruppo sociale, di una comunità, di un popolo.

Nel dialetto delle mie origini, il bisiaco, ci sono parecchi termini che in una sola parola descrivono con una precisione accessibile solo ai più raffinati conoscitori dell’idioma l’inevitabile destino di ogni sbronza che si rispetti: l’espulsione rapida e forzata di ogni contenuto gastrico.

I bisiachi sono una comunità più linguistica che geografica, anche se li si può collocare in un ipotetico triangolo ai cui lati si trovano il golfo di Panzano, il fiume Isonzo dalla foce a Sagrado (dove sono cresciuto) e il limite occidentale dell’Altopiano carsico. Tutto in una ristretta zona della provincia di Gorizia, al cui interno si riconosce un ulteriore, più piccolo triangolo, quello “delle bevude”.

La più numerosa comunità linguistica è quella che quotidianamente usa lo slang americano, nel cui dizionario ci sono più parole per ubriaco (drunk) che per qualsiasi altro aggettivo. Ci siamo capiti.

Liberi incontri in libera osteria

Cos’è che ci rende felici per le riaperture? Ci incontriamo, chiacchieriamo, mangiamo e beviamo, con i tavolini all’aperto chi vuole può persino fumare. Sono dunque i chiamiamoli ora semplicemente bar i luoghi del disimpegno? Se rispondessimo di sì senza pensarci un attimo, faremmo un torto alla storia.

Andiamo di nuovo nei caratteristici locali degli appena nati Stati Uniti d’America, le cui élite politiche e sociali, temendo che le taverne si rivelassero spazi di sedizione e contestazione, provarono così a regolamentare accesso, vendita e comportamenti nei luoghi di smercio dell’alcol.

Ma ogni tentativo soccombeva – di là come del resto già era successo di qua dell’oceano – a un difficile contrasto: da un lato si volevano evitare i disordini legati ad assembramenti e sbornie, dall’altro si mirava a guadagnare, per la qual cosa serviva inevitabilmente vendere tanto. E che proprio nei locali alcolici si preparassero moti e rivolte corrispondeva a verità.

Il saloon era anche il primo luogo in cui andare per informarsi. William Gooch (1681-1751), funzionario impegnato nelle trattative con i nativi irochesi, scrisse che il vero beneficio delle taverne non era tanto il trovarvi da mangiare, bere o dormire, quanto piuttosto la conversazione: per conoscere il territorio e i suoi abitanti, un’ora di discussioni da bar risultava più utile di una settimana spesa in osservazioni.

I disordini legati ai luoghi di bevute pubbliche avevano preoccupato e preoccupavano pure sotto altri aspetti. Lo vediamo prendendo un esempio coevo a quello americano ma geograficamente più vicino a noi, quello del principato di Trento di metà Settecento.

Scopriamo qui prima di tutto una periodica insistenza sull’obbligo imposto ai padroni delle osterie di chiudere i propri esercizi in coincidenza delle funzioni sacre e delle festività: ecco un evidente caso di concorrenza sleale da parte di chi allontanava persone dalla chiesa attraendole con offerte di vino per niente consacrato. Alcuni di loro venivano per questo condannati a pene non del tutto insignificanti.

Ma le locande erano anche il nascondiglio preferito per latitanti e contrabbandieri, per questo la possibile ubicazione dei fuggiaschi veniva spesso ricostruita grazie alle segnalazioni provenienti da osti e clienti e i mandati di cattura dovevano essere affissi alle pareti dei locali prediletti dalla gente di cattiva condotta.

Sempre in quegli anni, dava cattivo spettacolo di sé nelle bettole di Cavalese, valle di Fiemme, il prete Giuseppe Rizzoli che si ubriacava regolarmente, veniva alle mani, insultava ad alta voce i propri genitori con parole come queste: «Maledetto padre, maledetta madre che se non foste stati voi io non sarei diventato prete», e, dulcis in fundo, intratteneva rapporti regolari con una donna.

Muove a compassione, don Giuseppe Rizzoli, perché a leggere gli atti del processo intentato contro di lui dalle autorità ecclesiastiche trentine si ricava facilmente un ritratto da zimbello del villaggio, che presunti amici e conoscenti facevano bere per divertirsi alle sue spalle, spettatori che possiamo immaginare disinteressati e ridanciani dei turbamenti di un uomo infelice, messo al posto sbagliato. 

Modesto e popolare

Torniamo alle differenze lessicali accennate all’inizio e fermiamoci sul significato di osteria oggi. La definizione fornita da un’autorità come Treccani ci aiuta a ragionare sui tempi che cambiano: se in passato il nome identificava una locanda dove si poteva mangiare (bere) e alloggiare, oggi si parla piuttosto di un «locale pubblico, di tono modesto e popolare, con mescita di vini e spesso anche con servizio di trattoria».

Il nodo sta nell’espressione «di tono modesto e popolare», per molti clienti attuali un punto di attrattiva e di forza, per alcuni gestori un clima da ricreare, più o meno artificialmente, anche in ristoranti pluristellati.

Trovare un posto capace di offrire alimenti e bevande di produzione propria o a km zero, magari pure a buon prezzo e con generoso spazio all’aperto è diventato fondamentale per la scelta di molti avventori. Come gli immigrati nell’America settentrionale, come i trentini del XVIII secolo, ai nostri locali oggi chiediamo qualcosa di più del vino e del companatico: nessuna rissa, nessuna cospirazione, magari un pettegolezzo, una campagna elettorale, qualche volantino e quattro risate, una partita sul maxischermo e nuovi incontri, ancora meglio se nel verde di un giardino, senza mascherina. O tempora, o mores.

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