E se il più grande scrittore italiano del Novecento fosse stato dimenticato? È una delle ipotesi più verosimili – e crudeli – che si possano oggi formulare attorno alla poliedrica figura di Alberto Pincherle, meglio noto come Alberto Moravia. Le ragioni della rimozione potrebbero essere svariate, ma la più evidente è che in un’epoca storica fortemente polarizzata la capacità d’analisi non interessi più a nessuno.

Siamo stati di volta in volta global o no global, pro o anti tav, vax o No-vax, atlantisti o putiniani, senza lasciare spazio alle sfumature che solo un ragionamento intellettuale avrebbe potuto cogliere.

Ecco, leggere i libri di Moravia riattiverebbe quel tipo di ragionamento oggi caduto in disgrazia. Alle grida per avere ragione dovremmo sostituire i bisbigli di una riflessione che ha come unico scopo la conoscenza (e a leggere i personaggi di Moravia quando pensano si ha proprio quella impressione: che ti bisbiglino all’orecchio).

L’autodidatta

Moravia è costretto a una scrittura precocissima per colpa di una tubercolosi ossea che gli fa trascorrere la giovinezza rinchiuso in sanatorio. Ancora minorenne inizia la stesura de Gli indifferenti, primo romanzo esistenzialista, e sarà lo stesso Moravia a ironizzare sul suo intuito dicendo che Jean Paul Sartre e Albert Camus erano arrivati dopo perché avevano dovuto perdere tempo con la scuola.

Autentico autodidatta, è il severo tutore di sé stesso, con qualche dote innata. Aiutato dalla giovane età, nel suo primo romanzo ha l’audacia di troncare la vicenda sul più bello, nella scena del ballo in maschera in cui la figlia deve rivelare alla madre che hanno in comune lo stesso amante, e che sarai lei a sposarlo.

Moravia capisce che deve sacrificare quella scena per far risaltare ancora meglio il tema dell’indifferenza, lasciando che l’apatia infiltri non solo il contenuto ma anche la forma dell’opera. Il romanzo esce nel 1929 ed è una fotografia perfetta della borghesia qualunquista, bolsa e decadente dell’Italia tra le due guerre, disposta a darsi al primo duce che passa.

Fu così che Moravia venne attenzionato dalla polizia fascista (che aveva già ucciso i fratelli Rosselli, attivisti politici e suoi cugini). In un’intervista descrisse la marcia su Roma come una gita in città di alcune torme di campagnoli. Finito l’incantamento collettivo per Mussolini, l’Italia si ritrova povera ma bella, spinta dall’entusiasmo dello scampato verso il boom. Moravia continua imperterrito a fare quello che ha sempre fatto, scrivere in modo analitico le tare degli uomini.

Indagine fallace 

Già dal 1943, in autoesilio a Capri con Elsa Morante, aveva cominciato a scrivere L’amore coniugale, il cui incipit può rappresentare un campione valido dell’intera opera moraviana, una sineddoche del suo significato.

«Prima di tutto voglio parlare di mia moglie. Amare, oltre a molte altre cose, vuol dire trarre diletto dal guardare e osservare la persona amata. E non soltanto trarre questo diletto dalla contemplazione delle sue bellezze ma anche da quella delle sue bruttezze, poche o molte che siano».

Non c’è verbo che ricorra più spesso di “guardare” in Moravia (L’uomo che guarda è anche uno dei suoi romanzi senili). E non bisognerà chiaramente fermarsi alla mera funzione oculare, quello di Moravia è un bulbo speciale che vuole penetrare la mente umana. Vuole, anche se talvolta non sa come fare. Anzi, questa insicurezza dell’esito analitico è la vera cifra stilistica del movimento in pagina moraviano, ciò che fa della sua letteratura un’autentica indagine euristica, a tratti maniacale e logorroica.

Diverso in questo da Thomas Bernhard, un autore che giustamente gli viene affiancato perché scrittore di pensieri ossessivi (un altro ammalato in gioventù, costretto alla scrittura su un letto d’ospedale), da cui però si smarca nella libertà dell’insuccesso, nel partire sprovvisto di una griglia manichea nei confronti del bene e del male.

Moravia, insomma, può andare fuori fuoco, può sbagliarsi, può girare a vuoto. E non gli succede di rado nella rappresentazione delle sue donne, cristallizzate nel mito dell’istinto e del primitivo (in questo, involontariamente, Moravia è anche il maggior rappresentante delle gabbie di genere nel secolo scorso).

Scrittore di similitudini

L’amore coniugale è la storia di uno scrittore dubbioso verso il proprio talento (la crisi dell’artista è una dei motori propulsivi di tutta l’opera moraviana, e l’esistenzialismo del resto è il tentativo di capire quelli che non riescono a vivere la vita), e a un certo punto Moravia si diverte a parlare del suo personaggio per parlare di sé. «Plasticità, nessuna. Dice le cose invece di rappresentarle, le scrive invece di dipingerle. Manca di evidenza, di volume, di concretezza».

Questa mancanza di capacità figurativa, questa evanescenza del tangibile a dispetto della psicologia – e Gli indifferenti inizialmente venne rifiutato con la motivazione che sembrava «una nebbia di parole» – trova un suo fisiologico argine nel racconto breve, modo che Moravia frequentò per tutta la vita.

L’opera cardine di questo secondo lavoro arriva nel 1953 con Racconti romani, raccolta che gli valse anche il premio Strega e gli aprì le porte del cinema (ne restò sempre estraneo, pur collaborando ai riadattamenti dei suoi romanzi in veste di soggettista o sceneggiatore, il suo occhio rimase sempre dentro la penna).

Nel racconto Sciupone un marito generoso si lascia convincere dalla moglie di essere avaro, e sembra di assistere alla nascita della commedia all’italiana, cioè di vedere dopo tanto cupo neorealismo sbocciare un sorriso liberatorio nelle vicende del popolo post bellico, o anche solo la capacità di ridere di se stessi (ma per Moravia il comico è soltanto una forma più leggera di spietatezza).

«Provai un dubbio, un’esitazione, come quando, al mare, uno va per tuffarsi e l’acqua che si muove sotto i suoi piedi gli fa paura», si legge nello Sciupone. Moravia è uno scrittore di paragoni e non di metafore, e questa constatazione stilistica dice più di tutto: preferisce la logica all’immagine, l’analisi alla visione.

Sentieri letterari

Moravia permea il Novecento italiano, basti seguire un sentiero a caso partendo da uno dei suoi romanzi. La Noia (1960) narra dell’atroce rapporto amoroso tra Dino e Cecilia, Dino che cerca di degradare l’amata rendendo la loro relazione mercenaria, Cecilia che accoglie tutto passivamente, quasi come un Bartleby nostrano. Un romanzo ancora modernissimo che scandalizzerebbe il nuovo puritanesimo (i pensieri raramente sono politicamente corretti). Dino riflette: «Guardando Cecilia mentre mi stava accanto sul divano, dopo l’amore, supina e con le gambe aperte, io non potevo fare a meno di confrontare la fenditura orizzontale della bocca con quella verticale del sesso e di notare, meravigliato, quanto la seconda fosse più espressiva della prima».

Si procede con L’odore del sangue (scritto nel 1979 ma pubblicato soltanto postumo) di Goffredo Parise, ancora Roma, ancora una coppia stavolta tradizionale di cui cede di schianto uno dei due elementi, Silvia, raccontata impietosamente da suo marito, da questo io maschile ossessionato dai tradimenti di lei ma incapace di offrirle una alternativa, una salvezza, perché ancora e sempre il male d’amore si scopre essere male di vivere. «Era un timbro di voce drammatico, appassionato, un timbro di voce che non le avevo mai sentito e, purtroppo, il timbro di voce della donna innamorata, perduta d’amore. Per l’ennesima volta sentii l’odore del sangue...».

Andando avanti troviamo i Fantasmi romani di Luigi Malerba (2006), un’altra coppia sposata, Giano e Clarissa, il cui matrimonio si regge su un equilibrio imperfetto. Un capitolo lui, un capitolo lei, perché i sotterfugi per sopravvivere all’amore senza passione sono molteplici e appartengono a entrambi, dove alla fine della giostra, netta, si staglia l’insensatezza del mondo che si poggia su dei rapporti cavi, vuoti, in grado di produrre soltanto un’incessante eco d’amore. «... evitiamo d’indagare i segreti e i chiodi che ognuno dei due custodisce con cura e che, una volta portati alla luce, potrebbero provocare una catastrofe. La nostra salvezza è la menzogna. Semplice manutenzione del matrimonio».

E il sentiero arriva fino ai giorni nostri. Leggiamo Desiderio (2020) di Giorgio Montefoschi in stato ipnotico, pensando di conoscere bene gli antenati di questi Matteo e Livia, fotografati sull’Ardeatina (ancora Roma, sempre Roma), all’indomani della fine dei loro studi, nel preciso momento in cui si innamorano e si devono già separare. La loro sarà un’altra rincorsa perenne verso la soddisfazione impossibile di un desiderio e, perciò, a ben vedere, alla fine, di tutti i desideri, nell’assurdità. «Marco Ceriani aveva annunciato alla sorella Livia l’arrivo del suo amico Matteo, ventenne studente di Lettere, alla loro tenuta sulla strada Ardeatina, a sud di Roma. Era una giornata calda e assolata. Sui campi fra l’Appia e l’Ardeatina il grano, già parecchio alto, era mosso dal vento».


*La festa per Moravia “Nato per narrare” è partita il 7 marzo a Torino, con l’inaugurazione alla Gam della mostra Non so perché non ho fatto il pittore e si conclude a maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino. È un progetto della Fondazione Circolo dei lettori realizzato insieme alla Gam – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e al Museo Nazionale del Cinema, in collaborazione con Associazione Fondo Alberto Moravia, Bompiani Editore e Gallerie d’Italia.

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