È una sfida ai padroni dell’atletica mondiale. Due uomini contro un potere che sembrava sacro, Alex e Sandro, il campione e lo scienziato dello sport, il maratoneta e il suo allenatore, il doping e il talento, la fatica e l’inganno. Chi si droga per vincere le olimpiadi? E a chi fanno trovare la droga nel sangue per far perdere le olimpiadi?

Ci sono sempre mandanti ed esecutori anche in un “delitto imperfetto”, perché questo è l’intricato affaire sportivo giudiziario conosciuto come Il caso Alex Schwazer che è diventato anche il titolo di una docuserie, titolo in inglese Running for my truth, che il 13 aprile sbarca su Netflix.

La vicenda, sin dalle sue origini fino alle ultime sentenze giudiziare, viene ricostruita in quattro episodi prodotti da Indigo Stories, ideati e diretti dal regista Massimo Cappello e scritti da Marzia Maniscalco. Racconto e documento, tante voci, accusa e difesa, una lunga trama per crocifiggere Alex Schwazer e insudiciare Sandro Donati che ha dedicato un’intera vita contro il doping.

Chi ha colpito alle spalle il maratoneta? Chi, a tutti i costi, lo voleva fuori dai Giochi di Rio De Janeiro del 2016? Chi ha cospirato nei laboratori e manipolato le analisi sulle sue urine?

Dalla gloria al fango

La scalata e la caduta di Alex, dal gradino più alto del podio al fango, medaglia d’oro a Pechino nel 2008 nella 50 chilometri, poi la squalifica a Londra alle olimpiadi del 2012 per positività all’eritropoietina, il buio, il ritorno in pista al fianco di Sandro Donati per dimostrare a tutti che si può vincere senza sostanze proibite, la speranza, il riscatto, la paura, poi ancora il buio. Non è una storia che ha solo un lieto fine.

Assolto dalla giustizia ordinaria e condannato dalla giustizia sportiva, Alex Schwazer non ha più marciato verso la vittoria. È scivolato dentro un intrigo, probabilmente bersaglio di quella che è sembrata subito una “operazione” che non era solo orchestrata contro di lui ma anche contro Donati, il nemico numero uno dei signori del doping.
C’è tutto questo e tanto altro nelle quattro puntate di 45 minuti l’una. Naturalmente è stata offerta la parola ai grandi accusatori di Alex. I capi della Iaaf, la federazione internazionale di atletica, non hanno accetato l’intervista. Per quelli della Wada, l’agenzia mondiale antidopaggio, ha parlato il direttore Oliver Niggli che ha difeso la sua organizzazione lasciandosi andare a espressioni poco lusinghiere sulla magistratura italiana.

La legge sopra la legge

Una verità che si contrappone ostinatamente alla sentenza del tribunale di Bolzano che, il 18 febbraio 2022, ha chiuso definitivamente l’inchiesta contro il maratoneta: «Archiviata perché non ha commesso il fatto». Ma, per lo sport, c’è sempre una legge al di sopra della legge.

Alex Schwazer non si era dopato prima di terminare la lunga squalifica di Londra e prima di tornare ad allenarsi per Rio, non aveva assunto testosterone come risultava dalla sua urina prelevata alle 7.30 del mattino di capodanno 2016 fra le montagne di Racines, un piccolo comune dell’Alto Adige.

Un controllo a sorpresa, anche troppo a sorpresa. Con l’ispettore Dennis Jenkel che passa la notte del 31 dicembre in un hotel di Innsbruck, entra in Italia poco dopo le sei e si presenta a casa di Alex. Da quel momento tutto diventa oscuro e nebuloso.

Scatta la trappola

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Mancano 217 giorni alle olimpiadi di Rio e la provetta con la pipì del marciatore inizia un segretissimo viaggio che segnerà il destino di Alex. Prima destinazione Stoccarda, in Germania. Lì c’è la sede della Global Quality Sports, un service utilizzato dalla federazione mondiale d’atletica per i controlli antidoping.

Dalle tre del pomeriggio del primo gennaio alle sei del mattino del 2 gennaio la provetta resta incustodita, poi riparte verso i laboratori della Wada di Colonia. Perché il blitz di capodanno e perché quella “prova” abbandonata? A mistero si aggiunge altro mistero.

Un primo controllo sulle urine di Alex dà esito negativo, ripetono le analisi e come per magia l’esito è positivo. Nulla viene comunicato, né all’atleta né alla federazione internazionale di atletica, per 38 lunghi giorni. Lasciano partecipare Alex a due gare – a Caracalla a Roma e a La Coruna – senza dirgli nulla. Fanno passare tempo aspettando le olimpiadi di Rio. Alex è in trappola.

Doping di stato

Per capire perché qualcuno ha voluto incastrarlo bisogna fare un passo indietro, tornare a due settimane prima della missione dell’ispettore Jenkel a Racine. È il 15 dicembre del 2015 e Alex depone in un’aula di giustizia a Bolzano, dove era finito sotto inchiesta per doping. E decide di vuotare il sacco.

Squalificato fino al 2016 per l’eritropoietina di Londra e patteggiata una pena a 9 mesi con la giustizia ordinaria, Alex ammette le sue colpe e punta il dito contro il "sistema”. Fa nomi, consegna un memoriale ai magistrati, il procuratore capo della repubblica di Bolzano Guido Rispoli allarga le indagini e scoperchia lo scandalo di mille atleti russi coinvolti nel doping.

Negli stessi mesi in Francia mettono sotto accusa l’ex presidente della federazione internazionale di atletica Lamine Diack, uno dei suoi quindici figli Papa Massata e il capo dell’antidoping Gabriel Dollé. Saranno condannati per avere coperto il “doping di stato” a Mosca.

È una bomba la deposizione di Alex Schwazer. Scatena il panico in un mondo avvolto nell’omertà. E un’altra bomba scoppia quando diventa pubblica la notizia che ad allenarlo per una sua rinascita sarà Sandro Donati, uno dei simboli dello sport pulito nel mondo.

Sarà un caso, sarà una coincidenza ma, contemporaneamente, partono quei controlli di Capodanno, si susseguono le mancanze nella custodia delle provette, c’è l’assurda altalena sulla negatività e sulla positività delle sue urine.

La coppia che fa paura

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È una coppia che fa paura. Il maratoneta scende a Roma e si allena sulla pista del Parco delle Valli, accanto alla casa di Donati sulla Nomentana. Fa tempi strabilianti, sulla 20 e sulla 50 chilometri. È pronto a vincere un’altra volta.

Ma all’allenatore arrivano telefonate di un giudice di gara (è ancora al suo posto) che gli consiglia di frenare l’atleta e favorire in un’occasione un australiano e in un’altra due cinesi, si diffondono voci velenose su Alex, riaffacciano sulla scena vecchi e ambigui personaggi dell’atletica italiana.

L’agguato è pronto. Scatta poco dopo un test del maratoneta sui 10 mila metri, sulla pista abruzzese di Tagliacozzo. Tempo: 38’02"52, appena quattro secondi dal primato italiano. E’ quasi la fine per Alex Schwazer.
Ciò che avviene dopo ha qualcosa che è fra il criminale il grottesco. L’allenatore Sandro Donati viene ascoltato dalla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi «perché ho paura per me e per la mia famiglia», la federazione internazionale di atletica e l’agenzia antidoping mondiale alzano un muro di gomma, Alex è perso.

Prove e provette 

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Prove e provette contraffatte, falsi testimoni, avvertimenti, rappresaglie, ritrattazioni clamorose, processi farsa e una giustizia sportiva muta e sorda. Così Alex Schwazer viene trascinato nel gorgo di un’altra squalifica.
La docuserie di Netlfix entra in ogni passaggio del labirinto, offre i diversi punti di vista, la sensibilità del regista Massimo Cappello mantiene una rotta ferma ed esalta ogni incoerenza, ogni sconfinamento.

Ma le cose sono andate poi come sono andate. Lapidario il difensore di Alex Schwazer, l’avvocato Gerhard Brandstätter: «Un leone rimane sempre un leone e uno sciacallo rimane sempre uno sciacallo». È un po’ la sintesi di questo thriller sportivo-giudiziaro-politico che ha fatto tremare la cupola dell’atletica mondiale.
Il maratoneta non fa più il maratoneta, l’opinione pubblica però ha capito. Il maestro dello sport Sandro Donati dice: «Attualmente il sistema antidoping è affidato a istituzioni sportive che nel contempo sono controllori e controllati, non c’è mai garanzia di terzietà». E poi: «Colpisce l’arroganza di questa imposizione e anche la posizione e la passività degli atleti che non hanno ancora capito come funziona questo sistema che si affida molto sull’indifferenza».

Le ”farneticazioni” dei giudici

Si può fare tutto nella complicità, anche nella neutralità. Il magistrato che ha seguito il caso Schwazer, il giudice di Bolzano per le indagini preliminari Walter Pelino, ha querelato i boss dell’atletica mondiale che avevano considerato “farneticanti” le sue motivazioni sull’assoluzione di Alex.

L’agenzia mondiale antidoping si è dichiarata “sconvolta e inorridita” dalla sua sentenza e ha minacciato di querelare il giudice. In realtà è accaduto il contrario, il processo si è appena aperto a Trieste. Nel frattempo un altro pubblico ministero di Bolzano ha alzato bandiera bianca: il complotto contro Alex Schwazer non si può dimostrare. A volte, è complicato andare sino in fondo.

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