Il lavoro dei matematici si può dividere praticamente in due attività distinte: elaborare congetture, cioè ipotesi, e poi dimostrarle. Solo quando una congettura è dimostrata diventa finalmente un “teorema”.

Una congettura è una visione, un’epifania: la rivelazione di una forma precisa. La dimostrazione è arrivare a quella forma. Un matematico è un esploratore che tasta nel buio uno spazio, pensando sia fatto in un certo modo, intravedendo una legge in un movimento che è caotico solo in superficie. Come disse il fisico Werner Heisenberg: «Non c’è emozione come intravedere la legge matematica dietro il disordine delle apparenze».

Congetturare è dunque un lavoro molto simile a quello di un artista: è un lavoro di intuito, che si basa su conoscenza ed esperienza, esattamente come un fotografo vede una fotografia ancora prima di scattarla, o un pittore coltiva un proprio sguardo per anni per poi realizzarlo tecnicamente sulla tela.

Eppure pare che l’intelligenza artificiale sia arrivata a conquistare anche questo: uno degli ultimi bastioni in cui l’intelligenza umana sembrava ancora resistere.

Genio matematico

È recente la pubblicazione di un articolo su Nature, da parte di un gruppo di ricercatori israeliani di quella che hanno chiamato la “Ramanujan Machine”, in onore del grande matematico indiano Srinivasa Ramanujan: un algoritmo per la creazione automatica di congetture sulle costanti universali, come pi greco, e, la sezione aurea.

Ogni congettura prende la forma di un’equazione, tipo x = y. L’idea è che a sinistra dell’uguale ci sia una formula che contiene una costante universale, e a destra una frazione continua. Quindi l’algoritmo prende una formula a sinistra, e altre frazioni continue a destra, e poi le computa iterativamente per arrivare a una precisione via via crescente. Le fa diventare uguali. Il progetto è solo agli inizi, ma sta dando risultati molto promettenti, riuscendo a “riscoprire” la forma frazionaria di alcune costanti.

Ma perché può essere utile trovare una nuova formula che calcoli il pi greco, che conosciamo da secoli? Perché in matematica è molto importante vedere le cose da più punti di vista: se un numero può essere espresso anche come frazione continua, ci rivelerà qualcosa in più di sé stesso. Una montagna non può essere abbracciata in un solo sguardo. Per vederla, dobbiamo osservarla da punti di vista differenti, e da ogni luogo si rivelerà in maniera diversa, nuova ma coerente con il precedente. Lo stesso si può dire per strutture fondamentali come le costanti matematiche.  

S.R. Ramanujan è il prototipo del genio matematico. Nato poverissimo a Madras, in India, nel 1887, fu un bambino prodigio che studiò la matematica da autodidatta, leggendo libri e manuali fino a diventare talmente esperto da risultare incomprensibile anche per i suoi professori a scuola. Faceva ricerca in totale isolamento da qualsiasi comunità accademica, alla quale inviava continuamente lettere con i suoi risultati: lettere che solitamente non venivano prese neanche in considerazione, dato che Ramanujan non era a conoscenza del gergo matematico, usava una notazione tutta sua e, soprattutto, presentava i suoi teoremi così, senza dimostrazione. Sembravano le solite lettere dei “geni” solitari che pensano di aver trovato la Teoria del tutto e che nessuno, poverini, comprende.

Fortunatamente uno dei più grandi matematici dell’epoca, G. H. Hardy andò oltre l’apparenza bizzarra di quelle strane lettere riconoscendo con stupore il genio di quel giovane indiano di cui nessuno aveva sentito parlare. Lo invitò subito a Cambridge, per quella che diventerà una delle più fruttuose ed eccentriche collaborazioni matematiche di sempre.

Ramanujan era tutto intuito e pochissima tecnica. La matematica la vedeva, non procedeva a tentoni come quasi tutti gli altri. Essendo un indù ortodosso, affermava che le sue scoperte gli venivano rivelate dalla dea Namagiri Thayar, venerata dalla sua famiglia. Vedeva in sogno i numeri e le formule sulla sua lingua e la mattina li trascriveva. Diceva spesso: «Un'equazione per me non ha senso, se non rappresenta un pensiero di Dio».

Le sue epifanie dovevano poi essere passate al vaglio di una dimostrazione, ancorate al resto dell’edificio matematico. Moltissime si rivelarono in seguito scorrette. Ma questo tipo di intuito matematico – così simile alle visioni di un poeta, di un veggente – lo hanno reso leggendario. Morì di tubercolosi, a soli 32 anni.

Nei suoi taccuini ha lasciato così tante congetture che ancora oggi, dopo un secolo, stiamo ancora cercando di dimostrarle.

L’avvento della meccanica quantistica

Nel brullo deserto di Helgoland, uno spoglio ammasso di rocce nel mare del nord, che in tedesco significa “isola sacra”, il ventitreenne Werner Heisenberg intuisce che deve spogliarsi delle vecchie idee, deve «cavarsi gli occhi» e, in un paradossale salto di fede nella razionalità, abbracciare i calcoli matematici che si trova di fronte, per quanto il suo buonsenso non riesca ad accettarli. Non ci vuole credere, ma la matematica ha ragione e il suo buonsenso torto. Nelle sue dimensioni più minute, l’universo non ha senso.

Con la meccanica quantistica, intuita in quell’isola deserta, la fisica è cambiata per sempre, in maniera così radicale che lo stesso Albert Einstein, che solo vent’anni prima aveva rivoluzionato la nostra concezione dell’universo con la sua relatività, non riuscirà mai a farci pace.

Heisenberg e i suoi colleghi e rivali – Wolfgang Pauli, Max Born, Erwin Schrödinger, Niels Bohr – ridefiniranno i confini di una fisica che dovrebbe stare alla base di tutto ciò che conosciamo, e che dopo un lungo secolo di studi ancora stupisce e non riesce a convincerci davvero. Quasi che il nostro cervello non sia pronto – o, peggio, capace – di comprendere davvero la verità.

In una di quelle strane occasioni fra caso e destino che rendono la vita più bella, ho saputo della “Ramanujan machine” mentre stavo leggendo la storia di Heisenberg contenuta in Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il nuovo libro di Benjamín Labatut uscito di recente per Adelphi.

Il libro è uno straordinario “romanzo non romanzo”, un fulminante intreccio di storie che orbitano attorno a diversi temi, che qui funzionano quasi come buchi neri a cui si sentono inesorabilmente attratti: un libro dedicato a geni della scienza e della matematica, alle loro epifanie e al loro intuito. Al potere tremendo e meraviglioso della scienza, al perenne mistero della nostra comprensione della realtà.

Sono storie legate a quella incredibile rottura di faglia che furono i primi trent’anni del Novecento. Dopo Freud, dopo Picasso, dopo Einstein, fu l’avvento della meccanica quantistica a spazzare via ogni residuo di determinismo e di positivismo, distruggendo per sempre ogni idea ottocentesca di realtà unica, solida, pienamente conoscibile.

Una crisi con cui ancora facciamo i conti, e che ha riscritto i manuali di letteratura, fisica, storia dell’arte. Persino quelli di logica matematica.

Oltre i confini

Raccontando una serie di eventi realmente accaduti – l’invenzione del cianuro e del blu di Prussia, l’intuizione dei buchi neri, la vita del matematico Alexander Grothendieck, la scoperta della meccanica quantistica – Labatut scrive un libro è che un oggetto indecidibile, indeterminato, contemporaneamente saggio e romanzo come il gatto di Schrödinger è contemporaneamente vivo e morto.

Labatut, intervistato dalla scrittrice Claudia Durastanti, ammette candidamente che lui scrive fiction, che quello è il suo obiettivo: ma partire dalla realtà è fondamentale. Il compito che l’autore si è dato è solo aggiungere un quid in più, quel pizzico di invenzione che rende il mondo, misteriosamente, più comprensibile al cervello umano, così affamato di storie e così poco di realtà. Forse il mondo non l’abbiamo mai capito.

Ciò che crediamo di sapere del mondo viene costantemente ridefinito dalla scienza. Un giorno, forse, riterremo le nostre attuali idee sulla coscienza, l’intelligenza, l’eccezionalità umana esattamente come oggi guardiamo all’etere o al flogisto, “sostanze” che per secoli gli uomini hanno cercato prima di accettare il fatto che non esistevano, che quello non era il modo giusto di spiegare le cose. Un giorno, forse, riterremo lapalissiano il fatto che una macchina sappia fare tutto meglio di noi. Anche scrivere, comporre o scoprire nuova matematica.

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