La Champions League è la sua canzone. Risuona nello stadio prima delle partite ed è usata in tutte le principali pubblicità legate al torneo, come sanno tutti gli europei che non hanno passato gli ultimi trent’anni su Plutone. Ai campionati mondiali il paese ospite presenta sé stesso al resto del mondo con canzoni che a volte rimangono e più spesso vengono dimenticate, la Champions League invece propone all’infinito il suo immodificabile canto.

Quelle note accendono istantaneamente qualcosa nella mente e nel cuore di milioni di persone da Reykjavik a Istanbul, da Haifa a Lisbona, da Donetsk a San Pietroburgo, da Tiraspol a Glasgow, dal Manzanarre al Reno e molto oltre, visto che, secondo i dati del quotidiano sportivo spagnolo As, la finale di Champions League viene guardata solitamente da «400 milioni di spettatori in 200 paesi del mondo», addirittura cinque in più di quelli riconosciuti dall’Onu, se si contano anche il Vaticano e la Palestina. Se costretti a usare un aggettivo scemo per definire la canzone, “iconica” è quello che viene in mente. 

L’evento e il suo accompagnamento musicale non sono distinguibili o separabili: se non c’è il secondo, anche il primo scompare. È più facile immaginare una Champions League con un formato diverso – con più o meno squadre, con gironi più ampi o l’eliminazione diretta già dal principio – che una Champions senza la “canzone della Champions”, componente rituale ormai fissa e non negoziabile. Quando nasceva il robotico ipercampione che sarà protagonista della finale di sabato, Erling Haaland, la melodia aveva già compiuto dieci anni.

Questo fa dell’aria della Champions non una canzone, una colonna sonora, una sigla o un jingle, ma un inno, che al pari di un inno nazionale è modificabile solo al prezzo di una rivoluzione. Ma le rivoluzioni, oltre a non essere pranzi di gala, creano uno certo spaesamento, mentre sulla sua musica lo spettacolo calcistico ha costruito una confortevole stabilità.

Qualche anno fa la Uefa ha prodotto un microdocumentario sulle origini della musica del torneo, e tutti i giocatori intervistati per l’occasione dicevano più o meno la stessa cosa: quando allo stadio parte l’inconfondibile musica, si capisce che davvero è una partita importante. Come a dire che l’inno è ciò che certifica l’evento; senza quello, non si sa esattamente per cosa si sta giocando.

Progetto europeo

Su TikTok c’è un filone dedicato all’inno della Champions. È fatto di ragazzi della parte bassa della Generazione Z che commentano il testo dell’inno, che è a prova di criceto per quanto riguarda i contenuti ma ha la peculiarità non indifferente di essere scritto in tre lingue – inglese, francese e tedesco – e in queste ripete concetti tipo “le squadre migliori”, “l’evento più importante” e via così fino al leggendario finale “the champiooons”, sulla cui accoglienza nei vari stadi d’Europa torniamo fra un istante. 

Come sempre accade sui social, in queste spiegazioni manca il contesto, che in questo caso è più importante del testo per afferrare la rilevanza dell’inno come fenomeno culturale di massa.

La questione, in sintesi, è la seguente: l’inno della Champions è l’unico grande prodotto culturale europeo davvero condiviso, diffuso e ad alta riconoscibilità che sia stato prodotto negli anni Novanta.

È l’unico figlio legittimo e compiuto della stagione della creazione dell’unione, quando i promotori dell’Europa unita avevano chiaro che non bastavano i trattati, i parlamenti o un Erasmus a creare un sentimento europeo e non si facevano problemi a usare l’espressione «comunità di destino», un classico del federalismo europeo che però oggi in bocca a Giorgia Meloni diventa inevitabilmente una criptata ode mussoliniana. 

Erano gli anni dell’emozione per l’allargamento dei confini mentali e culturali del continente, quelli del passaggio concettuale più difficile: da alleanza strategica basata su carbone, acciaio, scambio di merci, libertà di movimento e abbassamento dei dazi a positiva unione plurilingue di anime, intenzioni, visioni.

C’era disperatamente bisogno di idee, libri, canzoni, sport, programmi televisivi e quant’altro che portassero le belle promesse europeiste nelle case degli europei, possibilmente in modo convincente. Compito arduo: già all’alba dell’Unione si era capito che in pochissimi avrebbero attaccato nella cameretta i poster di Adenauer o Jean Monnet e che l’inter rail da Ventotene a Maastricht era una viaggio noioso e completamente privo di pathos epico.

C’erano varie minestre riscaldate, più o meno nobili e gloriose, da servire per l’occasione. L’inno ufficiale dell’Unione c’era (e c’è), ma è l’inno alla gioia di Beethoven, eredità del passato europeo e non creazione ex novo. Per una generazione di europei è stata, nella sostanza della vita quotidiana, la sigla dell’Eurovisione, intermezzo nell’attesa che Alberto Tomba scendesse nella seconda manche. 

Lo stesso Eurovision Song Contest è una creazione del Dopoguerra, per lunghi decenni presa in giro come prodotto culturale di serie minore o, ancora peggio, ignorato completamente da masse che avevano di meglio (cioè gli Stati Uniti) da ascoltare e guardare.

Il generale De Gaulle aveva lanciato negli anni Sessanta la lungimirante idea di organizzare giochi spettacolari per cementare l’amicizia fra Francia e Germania, e il prodotto che ne è nato era il format internazionale Giochi senza frontiere. Nella pratica significava che Ettore Andenna guidava allegri giochi acquatici fra team internazionali sapientemente intervallati da vergognose marchette alle località turistiche europee. Non una grande evocazione dello spirito dei padri dell’Europa, diciamo.

Prima di tutto questo l’unico grande prodotto culturale europeo contemporaneamente di alto livello ed enorme successo popolare è stato il fumetto Asterix e Obelix, che a leggerlo oggi non passerebbe lo scrutinio di un puntiglioso ufficio di Bruxelles che si mettesse in animo di emendare discriminazioni territoriali, stereotipi nazionali e pregiudizi razziali. 

È tutto un prendere in giro vizi e inclinazioni dei popoli europei (e non solo): ci sono i galli irriducibili, i goti barbarici, i greci corrotti, gli egiziani pasticcioni, i romani pigri, gli iberici pigri ma fieri, gli svizzeri ossessionati dalla pulizia e così via.

Musica nel vuoto

Insomma, la Champions League, nata nel 1992, ha occupato lo spazio vuoto del desiderio di nuovi riti per la nuova unione, e così, in mancanza di alternative più convincenti, l’inno del torneo di calcio rinnovato a misura europea è diventato anche l’inno informale dell’intera Europa. 

Hanno affidato al compositore britannico Tony Britten, che ha fatto varie opere dimenticabili fra cui la più recente, in qualità di regista, è stato il documentario Benjamin Britten: Peace and Conflict. Per il resto, è bello immaginare il maestro Britten in barca a vela nei Caraibi, spinto dal vento tiepido delle royalties.

Britton aveva il mandato di comporre un inno classico e scaccia-hooligan, e lui con grande arguzia ha preso a piene mani da una sonata settecentesca di Hendel usata per l’incoronazione dei monarchi britannici, praticamente una marcia da ancien regime piantata nel cuore del decennio più sguaiatamente, inutilmente pop della storia recente.

Ormai il significante è indistinguibile dal significato, ma se per un attimo si riesce a separare la musica da ciò che rappresenta emerge, oltre alla notevole bruttezza della composizione, il lirismo orchestrale da nazionalismo ottocentesco. L’inno del calcio “nuovo” è in realtà un pezzo musicale polverosamente passatista, ma era forse inevitabile per quella fase che era disperatamente alla ricerca di un’epica fondativa. Per essere attraente doveva essere nuova, ma per essere duratura doveva affondare le radici da qualche parte. 

Infine, c’è la dimensione politica dell’inno, quella che si esprime nella ricezione alquanto variabile nei vari stadi europei. In alcune piazze, come a Napoli, la coda dell’inno è cantata, anzi gridata, un po’ come si grida alla fine dell’inno di Mameli. Altrove il momento è coperto da fischi e buuu che segnalano il disprezzo verso la burocrazia calcistica che l’inno rappresenta. Sabato sera i tifosi del Manchester City protesteranno durante la musica della Champions. Lo fanno almeno dal 2012.

È una storia di multe, sanzioni e indagini per violazioni delle regole sul fair play finanziario, ma più in generale è l’espressione del disappunto verso l’autorità. Questa polarizzazione sentimentale è proprio ciò che rende la canzone della Champions l’inno di tutto gli europei, compresi quelli che criticano il potere che guida l’unione.

© Riproduzione riservata