Mi mancano i concerti dal vivo. Mi mancano i concerti negli stadi, per cui scegliere le scarpe più comode, e quelli nei teatri gloriosi, per cui scegliere la cravatta giusta pensando a cosa ne avrebbe detto Alberto Arbasino; quelli nei palazzetti dello sport dove l’acustica fa schifo e negli auditorium degli architetti star dove si sente benissimo; nei club, nelle discoteche, nei seminterrati, nei centri sociali, negli anfiteatri naturali e in quelli greci, nelle arene romane, negli ippodromi, nelle chiese sconsacrate, nei parchi, nelle piazze, perfino nei parcheggi. Mi mancano le cose emozionanti, come la cacofonia che si alza dal golfo mistico quando gli orchestrali accordano gli strumenti, e il mugghìo di uno stadio pieno fino al terzo anello, e l’energia generata da novantamila persone vive, che diventa quasi materica, tangibile come il carisma di quelli come Bruce Springsteen o Patti Smith ma anche Kazu Makino: saranno l’astinenza o la nostalgia che deformano il passato abbellendolo, ma mi mancano pure cose che non pensavo, tipo le band svogliate, il cantante drogato che biascica e si mette a litigare col pubblico, e le ginocchia anchilosate in poltroncine troppo strette, le ore in fila, immobili sotto la pioggia gelida o sotto il sole, dissanguati dalle zanzare, aggrappati a un’inferriata in attesa che aprano i cancelli. Quasi mi mancano quelli che parlano o filmano con lo smartphone, e pure certi odori, la puzza di scarpe da ginnastica marce, di ascelle tonanti, di birra sgasata e piscio e fumo scadente e salamella e antizanzare o il profumo eccessivo della signora seduta dieci metri più in là e addobbata con gioielli che chissà cosa avrebbe detto Arbasino.

Mi mancano perfino quelle situazioni irritanti, come la vista del palco ostruita dal capellone alto due metri o dall’immancabile marchese del Grillo che si mette la ragazza sulle spalle perché lui è lui. Anche le gomitate nelle costole, il mal di schiena e i piedi gonfi mi mancano. E il dolore alle orecchie dopo che tutto è finito: ricordo un concerto dei Metallica, al Palavobis di Milano nel 1996, quando, dopo essere stato preso a sberle per due ore dalla musica metal a un volume illegale e da deflagrazioni nello spazio chiuso del palazzetto (bombe, letteralmente: la coreografia prevedeva effetti pirotecnici) all’uscita quasi non ci sentivo più. Sarà durata nemmeno un quarto d’ora quella lieve sordità ma non ho mai dimenticato la sensazione, di paura quasi.

Mi è tornata in mente quando la mia ragazza mi ha fatto leggere l’intervista a una giovane sorda che, tra le altre cose, raccontava che le piace andare ai concerti e il suo preferito è stato quello dei Coldplay.

Vedere voci

Sorvolando sui Coldplay, mi sono chiesto: anche i sordi possono andare ai concerti?! Ho pensato alla “potenza della musica che supera le barriere”, ho visualizzato “i sordi che sfondano il muro del suono”, eccetera… Poi, passato l’attacco di retorica, sono rimaste le domande: che rapporto hanno i sordi con la musica? Come fanno a sentirla? E con i concerti? Mi sono scoperto ignorante. Il tipico udente ignorante, nel suo comodo mondo a misura di udenti. Per capire qualcosa, ho contattato la ragazza a cui piacciono i Coldplay: è iniziato così il mio viaggio nel sorprendente mondo musicale, e per niente silenzioso, dei sordi.

Chiara. Quella ragazza si chiama Chiara Bucello, ha 27 anni, vive a Catania ed è una graphic designer. È nata sorda. «Non si sa perché» mi spiega via Skype (e scopro che i sordi sono in grado di parlare bene e che Skype traduce in sottotitoli per non udenti quello che dico) e scrivendomi: «Sono figlia di genitori udenti e mia madre non ha avuto la rosolia in gravidanza né altre malattie che possano causare la sordità, e nemmeno io. Ero predestinata».

In Italia e nel mondo, ogni mille bambini uno nasce sordo: Chiara è quell’uno. Non è un numero così piccolo. I sordi sono tanti. Eppure, come ha scritto Oliver Sacks, sommo neurologo e psichiatra, nell’incipit di Vedere voci, il saggio che Chiara mi ha consigliato, «è sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità». E se lo dice lui.

Un mondo da scoprire

“Sordità”, scrive il suddetto sommo, è un termine generico perché ne esistono di vari gradi: ci sono i “duri di orecchio”, i “sordi gravi” e i “sordi profondi” che non sentono niente sotto i novanta decibel o anche più. È con loro che ho parlato di musica.

«La sordità», dice Chiara, «è un mondo da scoprire: ogni sordo trova modi diversi per sviluppare, attraverso gli altri sensi, capacità che gli udenti non immaginano». Non solo vista e tatto finissimi: anche sentire le vibrazioni che attraversano il corpo. Rumori, suoni e musica non sono che vibrazioni che si propagano nell’aria e che il corpo può percepire, basta educarlo.

Al netto degli apparecchi acustici e degli impianti cocleari che oggi aiutano quasi tutti i sordi a sentire qualcosa dei rumori che li circondano, ho scoperto che la sordità non è assenza di suono, ma è più un punto di vista (di ascolto?) diverso sul suono. «Un sordo non può “ascoltare” la musica», mi spiega Chiara, «ma, col suo corpo, può sentirne le vibrazioni. Grazie alla musicoterapia ho imparato a distinguere le note e a suonare il piano».

Altra scoperta: un sordo può suonare uno strumento. «Il mio maestro suonava una nota e io, dandogli le spalle, dovevo capire quale fosse. È stato bellissimo studiare musica».

Suonare le vibrazioni

Se per Chiara è stato un passaggio, chi la musica ha continuato a studiarla e a suonarla è Giulia Mazza, sorda profonda (la madre ha avuto la rosolia durante la gravidanza), immersa fin dalla nascita nel silenzio ma anche nelle note di una famiglia assai musicale (la nonna insegna canto e pianoforte): a tre anni e mezzo ha incontrato la musicoterapeuta Giulia Cremaschi e ha iniziato a studiare il violoncello in una scuola di musica «in cui ero l’unica bambina sorda» (la storia del rapporto tra le due Giulie verrà raccontata nella puntata di domani di Che ci faccio qui, su Rai3 alle 23.30).

Giulia ha scelto il violoncello perché «ha un’estensione di frequenze simile a quella della voce umana, e questo mi avrebbe avvicinata di più alla comunicazione vocale, inoltre la sua forma mi permette di percepire le vibrazioni attraverso il contatto con il corpo».

Oggi, che di anni ne ha 35, lo suona talmente bene da tenere piccoli concerti. Vederla suonare Bach, sapendo che le sue orecchie non sentono, è un’esperienza da brividi: «La immagino la musica. Se chiudo gli occhi la sento come un discorso che smuove emozioni che devo portare alla coscienza. La sento strettamente collegata alle immagini visive: ho sentito dire che “i pensieri sono cose”, allora anche la musica è “qualcosa”».

Preferisce la classica ma non per via della sua formazione: «È che riesco a distinguere meglio gli strumenti e la voce dei cantanti lirici, mentre in altri generi ho più difficoltà a percepire la voce, spesso sovrastata da altri strumenti».

Anche lei amava andare ai concerti e il massimo del rock a cui ha assistito sono stati i Two Cellos, duo di violoncellisti che suonano Ac/Dc o Guns n’ Roses.

Ho dovuto fare uno sforzo per provare a immaginare cosa vuol dire suonare uno strumento affidandosi alle vibrazioni, e non credo di esserci riuscito: al contrario della cecità, per esempio, che possiamo sperimentare (penso a Dialogo nel buio, la mostra allestita dall’Istituto dei ciechi di Milano, in cui si fa un percorso nel buio assoluto con una guida cieca: un’esperienza che mi ha disorientato, terrorizzato, sorpreso e infine commosso), “non riusciamo a immaginare, se non con grande difficoltà, che effetto farebbe essere sordi dalla nascita”, scrive Sacks.

«Se volete vi do una mano io», dice Chiara: «state un giorno intero con i tappi nelle orecchie facendo quello che fate di solito. E poi ditemi come vi sentite».

Silent

Uno che è riuscito a immaginare qualcosa che non c’era è il compositore Gabriele Marangoni. Quarantenne, originario di Varese, nel 2017 ha portato in scena Silent, concerto di musica sperimentale, per sordi e per udenti, che mi ha fatto venire in mente i famosi 4’33” di silenzio incisi da John Cage nel 1952 («Ma no! Noi abbiamo fatto meglio!», ride lui).

Silent è uno spettacolo senza precedenti: «Posso affermare con orgoglio che è un progetto unico», dice Marangoni, «ci sono tanti esempi di musica che coinvolge i sordi ma tutti hanno sempre cercato di trasmettere ai sordi il nostro mondo sonoro, io invece ho fatto il percorso inverso: non far entrare i sordi nel mio universo sonoro bensì entrare io nel loro, capire come percepiscono il suono». Il risultato è una performance ipnotica, ancestrale, emotivamente fortissima, che si sente nella pancia, letteralmente. Sul palco, 12 sordi e quattro musicisti professionisti, udenti (due voci, contrabbasso, percussioni) e una sola regola: «Il linguaggio utilizzato doveva essere generato dai sordi».

Prima di cominciare, Marangoni ha fissato dei paletti rigidissimi: «Ai quattro musicisti udenti ho detto “qui nessuno suonerà o canterà niente che non arrivi dal mondo dei sordi”, anche le parti di elettronica lavoravano su suoni prodotti dai sordi. Tutti sono stati chiamati a comunicare su un livello neutro: non c’era nessuna sovrastruttura che arrivava dalla nostra formazione culturale musicale. La parola che mi piace usare per Silent è “primordiale”».

Primordiali sono i suoni da cui Marangoni è partito per scrivere la partitura, quelli che tutti sentiamo dall’inizio, nel ventre materno: battito cardiaco, soffio del respiro, picchettare dei denti, strofinamento delle mani. «Un primo livello sonoro che ho messo in relazione con un secondo livello, rivolto ai sordi: un contrappunto elettronico di frequenze bassissime, fino a 4 Hz, e quindi al di sotto della soglia dell’udibile, suoni che mettono udenti e sordi sullo stesso livello, perché non si sentono con le orecchie ma solo attraverso il corpo, percependo un cambiamento di pressione o una profonda vibrazione della carne o delle ossa».

Durante l’anno necessario a mettere a punto la performance (che ha debuttato nel 2017 a Reggio Emilia), Marangoni ha capito parecchio del mondo sonoro dei sordi e del loro rapporto con la musica: «È un legame molto profondo. Per alcuni molto doloroso, rancoroso, per altri è stata l’esperienza più bella e travolgente della vita. I sordi percepiscono la musica in un’altra dimensione, perché sono legati alla sua parte più “primitiva”. Quando una persona udente ascolta la musica l’80 per cento del suo cervello è concentrato sulla linea del tema o del canto, il 15 per cento sulla linea più “bassa” e solo il 5 per cento coglie le sfumature del mezzo, quindi anche a un udente sfugge tanto. I sordi invece sono focalizzati soprattutto sulla parte medio-bassa delle sonorità, dove tutto diventa vibrazione: un concerto rock con un bellissimo basso e una bella batteria, con una vibrazione più leggera delle chitarre, per un sordo è un’esperienza stupenda. Non seguirà il testo, ma chi se ne frega!».

Dopo il debutto Silent è tornato in scena nel 2018, aprendo l’Ars electronica festival di Linz, in Austria, e il 29 gennaio 2019 al Lac di Lugano dove, tra i sordi sul palco, c’era anche Paola Massa, 33 anni, originaria di Cava de’ Tirreni. Si è trasferita in Svizzera perché, tra l’altro, lì ha avuto l’opportunità di lavorare (è docente di lingua dei segni italiana, mediatrice linguistico culturale per la Federazione svizzera dei sordi e traduttrice di testi dall’italiano alla Lis per Swiss text). All’inizio era un po’ riluttante a partecipare, ma oggi dice che Silent «è stata un’esperienza bellissima. Non ci sono parole per descrivere l’emozione: producevamo suoni di ogni tipo, dicevamo parole a caso, gridavamo, stropicciavamo fogli, battevamo i denti o semplicemente respiravamo. Scoprire che esistono rumori di cui non ci rendiamo conto e che ogni giorno sono tra noi è stato stupendo». Come le fusa dei gatti? «Quella è una vibrazione dolce che si diffonde nel corpo. Il mio gatto sa che sono sorda: per comunicare, aspetta che io lo guardi e poi si appoggia alla porta se vuole uscire, al frigo se ha fame. Per le coccole, si struscia sulle mie gambe».

Sensori nel tessuto

Da lei scopro che a Lugano i ricercatori della scuola universitaria Supsi lavorano alla realizzazione di una chaise longue che, attraverso le vibrazioni, permette ai sordi di percepire meglio la musica. Sono molti gli strumenti che aiutano a “sentire” la musica, dai palloncini da tenere sulla pancia a Soundshirt, la maglietta da 638,86 euro che trasforma i suoni in vibrazioni grazie a sensori e micro attuatori inseriti nel tessuto. La chaise longue di Lugano è simile alla “pedana sensoriale” inventata da un papà italiano per il figlio sordo e realizzata, grazie al crowdfunding, dall’Università Ca’ Foscari.

L’ateneo veneziano ha da anni un rapporto speciale con la sordità. L’ultima iniziativa, fondamentale per la comunità italiana dei sordi, è la pubblicazione, lo scorso dicembre, della prima grammatica della lingua dei segni italiana. La professoressa Chiara Branchini, una delle due curatrici, a Venezia insegna Linguistica della lingua dei segni italiana: «Ca’ Foscari», mi spiega, «è stata la prima e, fino a un anno fa, unica università italiana a offrire tra le lingue lo studio della Lis come specializzazione». Parlando con lei scopro anche che la lingua dei segni non è universale: nel mondo, ogni comunità ha la propria.

Ostracizzata dalla cultura vittoriana di fine Ottocento che ne vietò l’insegnamento, vittima di pregiudizi («si crede», mi racconta Paola, «che chi impara la lingua dei segni non saprà usare quella vocale»), gli studi scientifici degli ultimi cinquant’anni hanno dimostrato che la lingua dei segni è importantissima per l’apprendimento del linguaggio, anche orale, e per lo sviluppo del pensiero nei bambini sordi. Purtroppo, l’Italia è l’unico paese a non aver ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 che impone di riconoscere, sostenere e diffondere la lingua dei segni usata sul territorio nazionale.

«Le ricadute sono pesantissime per i sordi», spiega Branchini: «Vuol dire che vengono violati almeno tre diritti primari: quello all’acquisizione spontanea di una lingua, come fanno tutti i bambini udenti; le pari opportunità; la pari partecipazione sociale». Una delle conseguenze peggiori riguarda la scuola: «I bambini sordi vengono seguiti da un assistente per un massimo di 12 ore sulle 36 totali di insegnamento e questo genera ritardi nell’apprendimento che spesso li condannano a una formazione insufficiente per l’università».

Rap nella lingua dei segni

Lo conferma Francesco Brizio, in arte Brazzo. Trentaquattro anni, sordo dalla nascita, rapper. Anzi, non solo rappa, lo fa in due lingue contemporaneamente: orale e dei segni. Per riuscire a cantare a tempo si fa affiancare da una persona che gli fa da metronomo umano (il ragionier Fantozzi avrebbe apprezzato): «Per le intonazioni, invece, mi alleno con qualcuno o con un logopedista che mi corregge e mi fa fare esercizi respiratori e diaframmatici».

Migliaia di visualizzazioni su Youtube e di follower su Facebook, svariate esibizioni dal vivo, collaborazioni, una partecipazione a Italia’s Got Talent che gli è valsa una standing ovation (nella Lis si fa sollevando le braccia e muovendo le mani velocemente, alla maniera della Regina Elisabetta quando saluta).

Nato a Taranto in una famiglia di sordi da tre generazioni, la sua prima lingua è stata quella dei segni: «A scuola, però, ho dovuto comunicare con gli altri, perciò a cinque anni i miei genitori mi portarono da un logopedista per imparare a parlare. Ho avuto un’infanzia abbastanza difficile: faticavo ad apprendere, restavo indietro perché non c’erano assistenti e dovevo seguire l’insegnante di sostegno e i professori leggendo il labiale per ore e ore. I compagni mi prendevano in giro quando mi vedevano usare la Lis o pronunciavo male una parola. Ma questo mi ha dato la carica per migliorare, fino a che, quattro anni fa, ho iniziato la mia sfida personale: rappare in Lingua dei segni».

Come i suoi colleghi, Brazzo usa il rap per parlare di sé, di cosa vuol dire essere sordo e sentirsi «escluso dal mondo», della lotta per il riconoscimento giuridico della Lis e, soprattutto, chiarisce: «Sono sordo, mica scemo», che è il titolo del suo pezzo più noto.

È andato a un solo concerto, «Jovanotti, anni fa a Taranto, ma ho faticato a seguirlo: perché i sordi possano godersi i concerti, dovrebbero mettere schermi con i testi delle canzoni, interpreti che le traducano in Lis (la Rai lo ha fatto per il Festival di Sanremo, ndr), le luci dovrebbero andare a ritmo e i sordi dovrebbe poter stare in prima fila, vicino alle casse, per sentire meglio le vibrazioni». Su questo, Chiara dissente: «Per me, il posto migliore è al centro della platea, stare troppo vicino alle casse mi dà fastidio».

Al centro, di lato o sotto il palco, sarebbe bello poterci tornare ai concerti. Quando mai succederà, il sogno di Chiara è assistere a quello di Ed Sheeran. I concerti mi mancano così tanto che andrei a vedere persino lui.

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