Tredicesima puntata del romanzo di Antonio d’Orrico. Riassunto delle precedenti. Sabato 6 settembre 1985, Italo Calvino è in ospedale e sta per essere operato, intanto due cronisti e una infermiera, sono alle prese con un prezioso manoscritto
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
(Riassunto puntate precedenti. Siena, sabato 7 settembre 1985, lo scrittore Italo Calvino colpito da aneurisma cerebrale sta per essere operato. In piazza del Campo, un cronista alle prime armi, un cronista più vecchio suo amico e una infermiera, giovane e graziosa, sono alle prese con un prezioso manoscritto e un caso di spionaggio letterario)
«Ma ti senti male? Sei bianco come un morto». Giorgio S. si alzò e mi abbracciò. Come cavalli in piazza del Campo la sera del Palio brutti pensieri giravano nella mia testa. Accorse anche Ginevra e afferrò la mezza Ferrarelle che Giorgio stava bevendo mentre leggeva il manoscritto inedito di Calvino e me ne spruzzò il contenuto sulla faccia. Pensai alle pistole ad acqua di quando ero bambino. Poi mi fece sedere, mi sollevò le gambe e disse al cameriere di portare un whisky. Il ragazzo si precipitò all’interno del caffè e ne spuntò fuori subito dopo.
«Il migliore che abbiamo» disse a Ginevra porgendole il bicchiere di scotch. Lei gli sorrise e mi raccomandò di bere piano. Giorgio allungò una mancia al cameriere, mi allentò il nodo della cravatta e mi diede un buffetto. Provai vergogna per aver sospettato di lui. L’apprensione che leggevo nei suoi occhi e la sollecitudine con cui mi stava assistendo fugarono ogni dubbio. Era il mio amico più caro e non un collega assetato di scoop che voleva soffiarmi il prezioso manoscritto inedito di Calvino.
Mentre sorseggiavo il whisky, Ginevra mi ordinò di fare strane cose. Sorridere, stringermi nelle spalle, dire come mi chiamavo. Capii che era una versione abbreviata del test di Glasgow a cui avevano sottoposto Calvino al suo arrivo al Santa Maria della Scala.
A proposito di cose strane mi ricordai che Oreste Del Buono, romanziere, giornalista, traduttore eccetera, quando il giorno prima gli avevo chiesto consigli per il pezzo che dovevo scrivere su Calvino ricoverato d’urgenza a Siena, mi aveva suggerito di ripetere nell’articolo il nome dell’ospedale quante più volte potevo: Santa Maria della Scala, Santa Maria della Scala, Santa Maria della Scala. Gli avevo domandato a cosa serviva quella specie di giaculatoria e mi aveva risposto: «A trasmettere al lettore la sensazione che Calvino e noi tutti siamo in braccio alla Madonna».
Mi prendeva per i fondelli? Con Del Buono era difficile capire se rideva o faceva sul serio. Ne sapeva una più del diavolo. «Non fidarti di me, sono stato prigioniero in un lager» mi aveva avvertito una volta. Ma io mi ero fidato spargendo qui e là nel pezzo il nome del vecchio ospedale come si fa con l’olio, il sale e l’aceto quando si condisce l’insalata. Però ora mi veniva il dubbio di non aver condito con la giusta dose di giaculatorie l’articolo secondo le raccomandazioni di Oreste.
Ginevra mi chiese se in famiglia eravamo soggetti a svenimenti improvvisi. La guardai e la vidi bellissima, più bionda che mai nel sole che splendeva su piazza del Campo. Voleva che gli snocciolassi la mia anamnesi familiare? Se era così, ero pronto a raccontarle tutto. Ah, ne avrei avuto di cose da dire (il whisky mi rende ciarliero). Avrei potuto raccontarle la storia clinica del mio parentato come un romanzo avventuroso e avvincente. Forse influenzato dalla giornata trascorsa in ospedale a chiedere ai medici notizie sulla salute del mio scrittore preferito, l’anamnesi mi parve la forma perfetta di romanzo autobiografico. Avrei dovuto parlarne con Del Buono, il mio consigliere letterario.
Capitolo 1 Il rene mobile che aveva a lungo tormentato mia madre costringendola a portare un busto che le dava un’aria da astronauta, da Valentina Tereshkova, la prima donna andata nello spazio (però mia madre era più bellina).
Capitolo 2 La perdita di capelli che mio padre aveva cercato di curare con mezzo panetto di lievito di birra (l’aspetto era più o meno simile a un dado da brodo) a fine pranzo (e ricordo papà che spezzava con il coltello il cubetto di lievito in due metà esatte con la precisione di un farmacista).
Capitolo 3 La claustrofobia, sempre di marca paterna, grazie alla quale aveva ottenuto una specie di dispensa che gli permetteva, alla minima avvisaglia di una crisi in arrivo, di abbandonare seduta stante il luogo di lavoro (era impiegato all’Ufficio anagrafe del Comune) e correre in strada come se fosse appena divampato un incendio e stesse per incenerire tutte le informazioni custodite in archivio: nomi e cognomi, ascendenze e discendenze, date di nascita e morte dell’intera popolazione cittadina. A ripensarci oggi, mi viene da lanciarmi, pur non essendo medico, in una diagnosi: era l’incendio immaginario, dal quale mio padre cercava perennemente scampo, la causa dei reali, continui e crepitanti bruciori di stomaco (vedi Capitolo 4) di cui il mio genitore soffriva e curava con cucchiaiate di magnesia S. Pellegrino?
Capitolo 5 Gli attacchi di sonnambulismo di mio fratello maggiore che lo facevano vagare nel cuore della notte in mutande e canottiera, occhi chiusi e braccia tese per pararsi da eventuali ostacoli. L’immagine di mio fratello che come uno spettro si aggirava nella casa buia faceva tornare in mente a me bambino il film Belfagor, il fantasma del Louvre, le cui scene, lampeggianti dalla televisione in bianco e nero nel tinello di casa, terrorizzarono per sempre (esiste la paura originale così come esiste il peccato originale) la mia generazione.
Nel grande romanzo che era l’anamnesi della mia vita avrei raccontato (era l’alcol che mi faceva parlare, come diceva Aznavour in una delle sue canzoni più belle?) le sedute con mia madre, nella doppia veste di madre confessora e psicoanalista, la mattina quando facevo colazione in cucina (zuppa di latte allietata qualche volta da un cucchiaio di cacao Perugina, ma non tutti i giorni perché «riscaldava») e, su sua affettuosa sollecitazione, le raccontavo i sogni dai quali mi ero appena svegliato prima che si dileguassero per sempre come vampiri all’alba. Quelli belli (come il sogno che ero sulla Spiaggia Grande di Diamante, il posto delle nostre vacanze estive, dove i piccoli sassi rotondi e canterini, che ne costituivano il vanto e sui quali si poteva camminare a piedi nudi senza doversi sottoporre a pene da fachiri, erano stati sostituiti da centinaia di migliaia di monetine da venti lire, un inesauribile giacimento di spiccioli colore dell’oro tutto di mia proprietà, l’unico abitante della Spiaggia Grande) e quelli brutti (come l’incubo ricorrente in cui mi appariva il Dottor Occultis di Blek Macigno – dimenticavo di dire che sognavo sempre a fumetti –, lui in persona, cappello in testa, occhialetti, baffetti e pizzetto da Mefistofele, ma diventato un gigante che con la testa arrivava all’altezza del primo piano, dove abitavo io, e ficcava il suo braccio lunghissimo dentro la finestra per prendermi: Santa Maria della Scala, aiutami tu).
Mia madre seguiva i miei racconti con la stessa attenzione con cui leggeva i suoi amati fotoromanzi leccandosi il dito indice prima di girare ogni volta la pagina. Un medico (lo stesso diagnosta del fantomatico rene mobile?) l’aveva sgridata per la poco igienica abitudine, ma lei non aveva mai smesso di farlo. Secondo me si umettava il dito per assaporare meglio la suspense, per pregustare la storia.
Mia madre aveva una teoria sui sogni. Come Freud. Diceva che gli incubi portavano bene. Se, per esempio, uno sognava di morire o che gli moriva una persona cara, non c’era niente da temere. Nella realtà sarebbe accaduto il contrario: a chi moriva in sogno gli si allungava la vita. Succedeva così perché la notte era un mondo dove le cose apparivano alla rovescia (infatti la notte era il contrario del giorno, era come i negativi delle foto). All’epoca non ebbi la lucidità di obiettare che, se era vero ciò che diceva, il sogno della Spiaggia Grande, per il quale si era congratulata con me e mi aveva festeggiato con una doppia porzione di cacao nella zuppa di latte, non significava, come aveva profetizzato, che sarei diventato un nababbo alla Paperon de’ Paperoni. E, infatti, poi non è andata così…
Il cercapersone di Ginevra prese a gracchiare. Era tempo di ritornare in ospedale. E io con lei a riprendere il mio lavoro. «Vi accompagno» disse Giorgio e poi fu la sua volta di sbiancare in viso. Il manoscritto di Calvino non era più sul tavolo dove l’aveva poggiato per correre in mio aiuto. Qualcuno, approfittando della confusione, se lo era portato via.
(Fine tredicesima puntata - continua)
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