(Nelle puntate precedenti... Siena, settembre 1985. Italo Calvino, colpito da ictus, è stato operato. Leo, giovane cronista inviato a seguire la vicenda, si ritrova a custodire un segreto che scotta: l’ultimo, inedito manoscritto dello scrittore. Intanto, il suo collega e amico Giorgio S. è scomparso nel nulla durante un incontro con un informatore, e il timore è che sia caduto in una trappola. Ma Leo non sa che la sua notte più lunga è appena iniziata)
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Se qualcuno di voi lettori è per caso vegetariano, salti le prossime righe perché sto uscendo dalla mia camera d’albergo per recarmi (verbo che Italo Calvino detestava, e nemmeno tanto cordialmente) in un ristorante e divorare una costata di chianina, l’equivalente di una trasfusione di sangue.
A ritardare il mio progetto è il rumore di qualcuno che bussa alla porta. Colpi leggeri, appena percettibili. Per un momento penso che sia la mia immaginazione, poi i colpi si ripetono. Due brevi, una pausa, due brevi di nuovo. È il nostro alfabeto Morse.
«Giorgio?» sussurro avvicinandomi alla porta.
«Sono io. Aprimi».
La voce di Giorgio S. sembra esausta, come se avesse appena corso una maratona. Apro la porta e lui scivola dentro rapidamente, lanciandosi un’occhiata furtiva alle spalle prima che io richiuda.
«Ma che cazzo, Giorgio! Che fine avevi fatto?». Non riesco a trattenere l’emozione. «La Digos ti sta cercando dappertutto. Il Capo...».
«Cosa c’entra la Digos?» mi interrompe lui.
«Visto che eri sparito, abbiamo pensato che l’informatore non esisteva, che era un’esca dei terroristi per rapirti» dico mangiandomi le parole. Le pronuncio con il naso e non con la bocca, come quelli che soffrono di adenoidi.
«Che c’entrano i terroristi?». Una luce strana, quasi divertita, gli si accende per un attimo negli occhi abbottati. Poi aggiunge: «Leo, ora ascoltami con attenzione. Devo dirti una cosa importante».
Non offre un bello spettacolo, il mio vecchio amico, di solito così inappuntabile: ha i capelli spettinati, la faccia sudata, la camicia sgualcita. Però è vivo, è qui e non legato nel cofano di un’auto, come ho temuto fino a un minuto fa.
«L’informatore... ha parlato» dice quasi balbettando. «È molto peggio di quanto pensavo. È un casino incredibile».
«E cosa ha detto?».
Si ravvia con una mano il ciuffo, lo sguardo perso nel vuoto. «Non posso dirtelo. Meno sai, meglio è. Ma sappi che c’è di mezzo la polizia, alti papaveri. Non posso fidarmi di nessuno».
Vorrei chiedergli cosa c’entrano gli alti papaveri della polizia con il caso del travestito fatto a pezzi nella vasca da bagno che sta seguendo, ma non apro bocca.
Giorgio si siede sul bordo del letto. È senza fiato.
«Perché non dormi un po’?».
«Devo andare».
«Almeno bevi qualcosa prima».
«Volentieri, ma non chiamare la reception. È meglio che nessuno mi veda qui».
Mi arrangio con il minibar. Ci sono due mignon di Johnny Walker etichetta rossa e qualche cubetto di ghiaccio nella vaschetta.
«On the rocks, come piace a te» gli dico, porgendogli il bicchiere, per farlo ridere, per alleggerire l’atmosfera. Ma non ottengo nessun risultato.
Giorgio beve piano. «Devi darmi una mano. Ho bisogno di non farmi vedere in giro, di sparire fino a che non trovo una persona prima che la trovi qualcun altro».
Comincio a preoccuparmi sul serio. «Ma di cosa stai parlando?».
«Non posso dire niente, scusami. Sono qui per chiederti un favore. Un favore da amico».
Se non sapessi com’è fatto – il cronista di nera duro, impavido, che ha letto tutti i gialli di Hammett –, direi che ha la voce incrinata di pianto.
«Quale favore?».
«Non dire al giornale che sono venuto qui. Se il Capo ti domanda di me, tu non sai niente».
Ci penso. Mi sta chiedendo tanto. Mentire al Capo. Fargli da complice. Complice di cosa? Ma, poi, penso alla nostra amicizia, a tutte le volte che Giorgio mi ha dato lui una mano. Alla volta che mi portò dal Nicaragua (o era il Guatemala?) la foto con la dedica e l’autografo di García Márquez, il mio scrittore preferito.
«D’accordo. Farò come vuoi».
Un sorriso stanco gli affiora sulle labbra. «Grazie. Sapevo che potevo contare su di te».
Poggia il bicchiere (ha ingurgitato anche i cubetti di ghiaccio) sul comodino. Si alza. Sulla porta, si gira a guardarmi.
« Qualsiasi cosa sentirai dire su di me, non allarmarti. Non fare nulla. Tu mi hai visto per l’ultima volta stamattina, quando sono partito per Grosseto. Chiaro?»
«Chiaro».
«Mi faccio vivo io».
Lo guardo aprire la porta, controllare che non ci sia nessuno in corridoio e svanire nel silenzio. Un silenzio che ora, nella stanza, sembra assordante. Prego che nel minibar sia rimasta una bottiglietta di whisky (le ho sempre detestate come Calvino detesta il verbo “recare”, e pensare che c’è gente che le colleziona). Preghiera esaudita: c’è ancora una mignon di Johnny Walker e mi ricorda la bottiglietta con l’acqua della Madonnina che una vicina di casa mi portò da Lourdes quando ero bambino. Mi siedo sulla poltrona vicino alla finestra a pensare.
Dopo dieci minuti, ho un’ispirazione. Non posso restare con le mani in mano. Chiamo il Capo. Devo sembrare preoccupato, angosciato. Non dovrebbe essere difficile. Mentre il telefono squilla, fisso l’impronta lasciata da Giorgio sul copriletto.
«Capo, scusami se ti disturbo a quest’ora... ci sono novità su Giorgio?»
Mi risponde un brontolio stanco. «Niente di niente. Non capisco. Non è da Giorgio. Lo conosci, quando non è in redazione chiama ogni ora per dire dov’è, dove sta andando. Ha la mania della reperibilità».
«È strano davvero. Mi aveva detto che sarebbe ripassato da Siena tornando a Firenze». La mia voce trema, ma non per finta. Sto ingannando l’uomo che mi ha appena fatto avere un contratto di praticantato, che vuole fare di me un giornalista.
«Comunque, su consiglio della Digos, per ora non parliamo di questa storia sul giornale».
Dal tono, capisco che non gli piace ignorare la faccenda. Non è il suo stile. Lui dice sempre che un giornalista i panni sporchi li lava sempre in pubblico.
«Il tuo pezzo su Calvino era ottimo» aggiunge cambiando argomento.
Non è uno che di solito largheggia in complimenti e le sue parole fanno aumentare il mio senso di colpa. Il mio castello di bugie sta quasi per crollare.
«Grazie» riesco a malapena a mormorare.
«Vado a chiudere le pagine. Se hai notizie, chiamami. A qualsiasi ora».
Riattacca. Resto seduto al buio. Fuori dalla finestra, Piazza del Campo è quasi deserta. Qualche turista ritardatario, qualche coppia che passeggia mano nella mano. La vita normale di una città normale. La vita normale, senza intrighi, senza doppifondi, senza giuramenti di mantenere un segreto.
Il manoscritto di Calvino nella cartella gialla mi guarda dal tavolino dove l’ho appoggiato. Mario Belafonte, il sassofonista cubano, l’altro mio segreto. Ormai si accumulano nella mia vita come nuvole di una tempesta.
Faccio una doccia lunghissima per lavare i miei pensieri più che la mia pelle. Mi stendo sul letto in accappatoio. Dico addio alla bistecca succulenta che doveva rimettermi al mondo. Do la buonanotte a Calvino. Posso lasciarlo riposare tranquillo. Almeno fino al prossimo articolo. Auguro buona fortuna a Giorgio.
Il suono del telefono trafigge il mio sonno e il silenzio. Sono le tre di mattina.
«Leo, è successo quello che temevamo».
La voce del Capo è gesso che stride sulla lavagna.
«I terroristi hanno fatto trovare un comunicato in una cabina telefonica a Roma. Annunciano il rapimento di Giorgio S., lo chiamano “il pennivendolo”».
Ci metto un attimo prima di capire il significato esatto delle sue parole.
«Pronto, sei ancora lì?» chiede il Capo.
«Sì» rispondo, anche se vorrei dire no, non voglio essere qui, ma in un altro posto, un posto senza terroristi, senza informatori, senza amici nei guai, e anche senza scrittori che amo in ospedale.
«Dicono di averlo preso nel pomeriggio vicino a Grosseto. Scusa, mi chiamano sull’altra linea» aggiunge il Capo e riattacca.
Rimango con la cornetta in mano, troppo pesante da rimettere a posto. Nel buio della stanza, sento un respiro affannoso. Da rapace notturno. Ho paura. Poi capisco che sono io, l’animale in trappola, schiacciato dal peso della promessa fatta a Giorgio. Devo richiamare il Capo e confessare tutto? Non voglio nemmeno immaginare la sua reazione.
Mi rimbombano in testa le parole di Giorgio: «Qualsiasi cosa sentirai, non allarmarti. Fidati». Come faccio a non allarmarmi? Giorgio mi ha messo una bomba in tasca, il suo ticchettio si fa ogni istante più veloce. Mi alzo. Di bottigliette di Johnny Walker, nel minibar, non c’è più nemmeno l’ombra.
(Fine ventesima puntata – continua)
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