Era volgare, malandata, fuori di testa. Ma era anche irripetibile, feroce e viva. In questo ritratto comico e disperato, tra parolacce e sigarette, prende forma una figura ingombrante e indimenticabile. E forse, alla fine, anche un piccolo tentativo di amore postumo
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Che poi, se devo essere sincero, io faccio una gran fatica a parlare di lei.
Com’era fisicamente? La classica vecchia. La potete immaginare. Il corpo: un sacco afflosciato e smunto. I capelli: ciuffi sparsi di boccoli bianchi, attaccati alla testa per semplice fortuna, roba che sarebbe bastato un alito di vento a farli volare via. Aveva gli arti corti, e questa effettivamente era una cosa particolare. Ed era anche affetta da irsutismo. Il che, adesso che ci penso, faceva abbastanza schifo.
Fumava prodigiosamente, quindi se la doveste immaginare fareste meglio a ficcarle una sigaretta in bocca, con tre centimetri di cenere penzolanti. Dovreste anche vestirla: una tunica di lino, macchiata e logora, che le lasciava scoperte le caviglie gonfie.
La parte più curiosa del suo aspetto erano sicuramente i suoi occhi, piccoli e marroni, che emanavano una strana energia assassina dalla quale si intuiva che sarebbe stata in grado di uccidere, se le fosse stato necessario.
Aveva un temperamento bilioso. Appena le facevi notare una qualsiasi cosa, non so, un zia guarda che è sale quello, non zucchero, ti prendeva il dito e te lo storceva. Lo faceva di gusto: serrava la mascella e inarcava le sopracciglia, come a dire, vieni, riprovaci stronzo, che te lo spezzo.
Era fuori di testa, va detto. Sprezzante del pericolo. Una volta, avevo otto anni, eravamo in macchina, su un rettilineo, Corso Francia per la precisione, sfrecciavamo a centoventi chilometri orari, ignari della legge, beati, felici, chi c’ammazza. Quando lei di colpo, come una squilibrata, ha abbassato tutti i finestrini, ha mollato il volante, e ha tentato di accendersi una sigaretta.
“Guida tu” ha detto.
Come, guido io? Sei fuori di testa, zia? Vuoi che moriamo?
“E chi guida, sennò? Dài. Deficiente. Metti le mani su volante.”
E alla fine l’ho fatto, ho guidato. Per ben cinque minuti. Ed è stato pure bello.
Che poi zia Mimì nel traffico era una roba agghiacciante: veniva fuori tutta la sua romanità e tutto il suo astio per la specie umana. Era un continuo di: “a cornuto” “a merda” “a stronzo”.
Anche nell’ultimo periodo, quando non guidava più e se ne stava rannicchiata sul sedile del passeggero, un nido d’ossa che a guardarlo faceva tenerezza, lei il suo: “annatevene a morì ammazzati tutti” lo doveva dire. Persino con un filo di voce. Sussurrato. Mettendo anche una pausa enfatica prima del “tutti”, come se “annatevene a morì ammazzati” non fosse sufficiente, e anzi fosse necessario specificare: annatevene a morì ammazzati tutti. Stronzi.
Quando ero bambino ogni tanto mi portava al mare. A Ostia antica. L’immagine di lei che si fa il bidet all’acqua salata sul bagnasciuga ancora mi perseguita.
Mi viene in mente un ricordo, una piccola gemma conservata nella memoria. Zia Mimì che emerge dall’acqua, cammina verso di me, si tampona l’interno coscia con l’asciugamano sul quale io un minuto prima appoggiavo il viso, mi guarda, e poi mi fa:
“Che cos’hai ai capezzoli?”
“In che senso?”
“Ma che non lo vedi?”
“No, non lo vedo, che cos’ho ai capezzoli?”
I miei capezzoli mi sembrano perfettamente normali, ci ho convissuto per tutta la vita, dieci lunghissimi anni in cui nessuno, mai, ha avanzato lamentele o mostrato stupore alla loro vista.
Lei tace.
“Zia, allora?”
Mi guarda nelle palle degli occhi. Poi punta lo sguardo sul mio petto. Poi di nuovo dritto negli occhi.
“No vabbè, niente. Se a te sembrano normali.”
E se ne va.
Era anche affetta da dissenteria cronica.
“Zia, credo che dovresti farti visitare. Da un dottore. Uno specialista” le ho detto, un giorno.
“E perché mai dovrei fare una cosa del genere?” ha risposto.
“C’era del pus.”
“Dove?”
“Nelle tue feci. C’era del pus nelle tue feci.”
“Ma è orribile. Come l’hai visto?”
“Non hai scaricato.”
“Mh.”
“Quindi? Devi curarti, zia. Dico seriamente. Qualcosa sta marcendo dentro di te.”
“Tu fatti i cazzi tuoi” Pausa. “Che è meglio.”
Bene così.
Al funerale tutti i convitati avevano un’aria allibita. Come se non se l’aspettassero, come se la morte di zia Mimì l’avesse colti di sorpresa. Il che non ha alcun senso. Aveva più di ottant’anni – o almeno credo, era tanto vecchia da non avere più età – nel petto aveva una valvola suina, due bypass; senza contare le venticinque sigarette al giorno che fumava e le due che, sospetto, ingerisse per intero. La verità è che è un miracolo se è sopravvissuta tanto. Eppure: allibita. La gente aveva un’aria allibita.
Abbiamo venduto la maggior parte della sua roba. Era un’accumulatrice seriale, in casa aveva collezionato pile di oggetti indicibili e male assortiti: una scimmia-tavolino color malva, una consolle in stile Luigi XIV intarsiata d’oro, un divertente set di oliera, acetiera, sale e pepe a forma di cocomero. Mi sono dato una spiegazione, negli anni, per questa sua inclinazione: zia Mimì provava per i mobili esteticamente svantaggiati quello stesso senso di compassione che certi di noi provano alla vista di gattini ciechi, cani senza una zampa, coniglietti mutilati. L’impulso irresistibile di adottarli.
Siamo riusciti a dar via tutto, pare esistano fanatici che adorano comprare i beni delle persone recentemente defunte, e in mezza giornata non c’era più niente. Io ho conservato solo una cosa. Una statuetta in porcellana di origine spagnola che raffigura una sposina. Una sposina molto delicata, con lo sguardo basso, le mani intrecciate dietro la schiena. E chissà che quella sposina non fosse lei, in un altro universo, un'altra vita. E io comunque l’ho conservata, e quindi la sposina è salva, è qui accanto a me anche adesso che scrivo. E più la guardo, più me la ricorda, Zia Mimì. Non che sia importante, naturalmente.
Ho deposto nella sua cassa mortuaria, come da suoi precisi ordini, un pacchetto di Chesterfield blu, una boccetta di Minias e una bottiglietta di coca cola - suo feticcio da sempre.
Quando mi sono accorto che mancava l’accendino, era ormai troppo tardi.
Se il nostro fosse un Dio buono, che non è, Mimì adesso sarebbe in un paradiso in cui le sigarette crescono sugli alberi, gli accendini non esistono perché tutto prende fuoco con la forza del pensiero e Walker Texas Ranger va ancora in onda, perché cancellarlo sarebbe un atto immorale.
Io non parlo mai di lei. E non credo lo farò molte altre volte. La penso anche raramente, devo dire. Ogni tanto. Diciamo: una volta al mese. Per esempio, quando sento l’odore del legno vecchio – che a me ricorda l’odore della sua pelle. Oppure quando passeggio per il Lungotevere, perché lei lo adorava, non era mai stata in nessun modo vicina alla natura, mai sciato, mai stata in campagna – e per lei il Tevere, con le sue pantegane, i suoi preservativi usati incastrati tra i rami e le sue biciclette che emergono dal fondale, aveva qualcosa di mistico.
Mi ricordo di lei anche quando taglio la frutta in cucina e sa di cipolla. Lei la cipolla la mangiava a tocchi. Diceva che fosse diuretica. Chissà.
E poi quando sento certa musica, qualche canzone folk o blues - roba che la commuoveva, tipo The first i ever saw your face, e mi commuovo anche io.
La penso ogni volta che vedo un bambino mano nella mano con una vecchia – che sia sua nonna, sua zia, non importa. Io la penso.
Questa notte l’ho sognata. Era seduta sul divano, le gambe divaricate, i piedi nudi e grinzosi appoggiati sul tavolino. Dormiva. Io l’ho svegliata e le ho detto: “andiamo” e lei non ha risposto, perché non parla mai nei miei sogni, però si è messa in piedi, e così siamo balzati fuori dalla finestra, e ci siamo alzati in volo verso la Spagna.
Non sono stato un buon nipote. Ero troppo intontito dal puzzo delle sue sigarette per apprezzarla. Ma forse posso essere un buon nipote adesso, in sogno. Nella mia fantasia guido con lei su tutti i rettilinei che ci pare, addirittura guidiamo senza mani, mettiamo i piedi sul volante, fumiamo mille sigarette, sentiamo la musica a palla. Di tutti gli altri guidatori non ce ne frega un tubo, li insultiamo con i peggiori insulti che ci vengono in mente, per esempio: “brutto coglione itterico”. Ecco. Questo è il primo insulto che ci viene in mente e noi glielo urliamo.
Non sono stato un buon nipote ma adesso, quando mi guardo allo specchio, sono suoi gli occhi piccoli e marroni che intravedo.
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