Lo so cosa e come scriveranno i miei colleghi. Scriveranno che il respiro trattenuto dell’ospedale di Santa Maria della Scala si è finalmente sciolto in un sospiro di sollievo. Italo Calvino è fuori pericolo. Il suo corpo fragile sta riposando, recuperando le forze dopo un intervento che è sembrato durare un’eternità.

Anche io mando al giornale il pezzo scritto sulla vecchia Underwood che Ginevra, la mia amica infermiera, ha messo a mia disposizione. Lo faccio dall’albergo. Il fax emette un ultimo sibilo acuto prima di tacere. Quasi mi sembra di vedere Lucetta, la segretaria di redazione, che stacca la carta termica ancora calda, mentre un odore chimico pizzica le sue meravigliose narici. Il mio articolo è asciutto come un bollettino medico. Calvino fuori pericolo, intervento riuscito, condizioni stabili. Il mio maestro, Oreste Del Buono, sarebbe orgoglioso del mio understatement. Lo stomaco mi si contrae. Quando ho mangiato l’ultima volta? Stamattina, un cornetto prima di correre in ospedale.

Dalla finestra dell’albergo li vedo muoversi. Cinque sagome scure contro la luce dorata di Piazza del Campo. Sono gli inviatoni dei grandi giornali. Riconosco la camminata di Corsetti del Corriere, le spalle curve di Marinelli di Repubblica, i capelli biondi di Gloria Ersili del Giorno. Chissà cosa starà pensando in questo momento Gloria? Che la conchiglia ocra di Piazza del Campo è già immersa nelle prime, fresche ombre della sera senese? Lei non pensa, scrive direttamente. Purtroppo ha uno stile che potrebbe essere quello di sua nonna. Però almeno lei uno stile ce l’ha. Gli altri due non hanno nemmeno quello.

Ora si dirigono verso il ristorante con i tavolini sotto gli ombrelloni bianchi. Nessuno si stacca dal gruppo. Nessuno si ferma. Nessuno osa restare indietro. Si controllano a vicenda nel terrore che uno di loro trovi una notizia in esclusiva.

Dieci minuti fa Corsetti, che si comporta come se fosse il loro capo perché è del Corriere, è venuto a cercarmi in albergo. Ero nella hall in attesa di poter usare il fax. Ha lanciato un’occhiata alle cartelle dell’articolo che tenevo arrotolate in mano come se volesse incenerirle. Nel pezzo che ho scritto ieri gli ho dato un buco grande come una casa e ancora non ha smaltito il colpo.

«Vieni a mangiare con noi?».

Ho risposto: «Grazie, ma ho già un impegno».

«Spero non di lavoro» ha detto lui con una risatina soffocata e se ne è andato. Ma è proprio quello che teme. L’ho letto nei suoi pensieri come se fosse un titolo di giornale a caratteri cubitali: «Questo stronzo sta lavorando di nascosto a uno scoop». L’ultimo arrivato, uno sconosciuto, un praticante che non ha ancora il tesserino rosso dell’Ordine dei giornalisti, trama nell’ombra. Vuole mettere nel sacco le firme del Corriere della Sera, Repubblica, Il Giorno.

Ora gesticolano animatamente mentre attraversano la piazza. Corsetti fa ampi gesti con le braccia. Marinelli scuote il testone. Gloria guarda verso il mio albergo. So a cosa stanno pensando. Il praticante che rifiuta la loro compagnia. Il novellino che forse sa qualcosa che loro non sanno.

Sospettano di me. E mentre li guardo, sento la mia solitudine non come un peso, ma quasi come una posizione di vantaggio. Forse, in fondo, è proprio quello che volevo. Mi verso un whisky dal minibar. Il liquido ambrato trema nel bicchiere (scriverebbe Martinelli che racconta ogni cosa, anche una partita di pallone, come se fosse una spy story). Le mie mani non sono ferme come credevo.

Sul letto, un fascicolo di fogli battuti a macchina, duecento pagine ingiallite come se provenissero da una risma di carta invecchiata. Il carattere non è quello della Underwood, che ormai conosco a memoria. Direi che potrebbe essere una Olivetti. Forse addirittura la leggendaria Valentine, quella disegnata da Sottsass. Qui e là c’è qualche correzione a penna. In alto, a destra: «I. Calvino - Bozza finale - Agosto 1985».

È il manoscritto che lo scrittore mi ha dato da leggere prima di sentirsi male e che nel pomeriggio ho recuperato dall’armadietto dei medicinali all’ospedale dove la mia fida Ginevra, sempre lei, lo aveva chiuso sotto chiave.

Certo se gli inviatoni conoscessero la verità, se venissero a sapere dell’esistenza di un manoscritto inedito di Calvino, probabilmente (ahilui) l’ultimo, ci si getterebbero come leoni affamati sulla carcassa ancora calda di una gazzella (così scriverebbe Corsetti che ama le metafore legate al mondo animale e naturale, nei suoi pezzi sembra di essere a un safari, Hemingway lo ha stordito da ragazzino e non si è più ripreso). È il romanzo in cui il maestro ha commesso l’eresia più grande: ha provato a cambiare pelle, a tradire sé stesso per darsi al pop (questa, invece, è prosa da Gloria).

Corsetti impazzirebbe alla notizia e telefonerebbe in via Solferino chiedendo di fermare le rotative e di preparare una edizione straordinaria. Marinelli mi manderebbe un killer e Gloria salirebbe nella mia camera d’albergo, direbbe che fa davvero caldo a Siena e comincerebbe a sbottonarsi la sua camicetta rosa shocking.

Ah quanto pagherebbero per conoscere soltanto l’inizio del romanzo. Tutto comincia a Parigi, in una suite dell’Hôtel de Crillon.

Mario Belafonte si sveglia alle quattro del pomeriggio. Le tende di velluto filtrano una luce dorata che gli trafigge le palpebre. Il mal di testa pulsa contro le tempie come un metronomo impazzito.

La bocca sa di posacenere e vodka. Sul comodino, un bicchiere mezzo vuoto e una cannuccia d’argento. Tracce di polvere bianca sul vetro nero del tavolino. Ricardo è sdraiato sul divano, ancora vestito, un braccio penzoloni verso il tappeto persiano.

Tre colpi alla porta. Discreti ma insistenti.

"Room service."

Mario si trascina fino alla porta. Il cameriere spinge un carrello d'argento lucido. Caffè fumante, croissant dorati, spremute d'arancia in caraffe di cristallo. E una busta. Carta color crema, spessa come cartone.

Le dita di Mario tremano mentre la apre. L'inchiostro nero danza davanti ai suoi occhi ancora appannati dall'alcol.

"Caro Mario, sono Aleixa. Ti sto scrivendo dalla mia isola..."

Richiudo il fascicolo. Apro la finestra, mi affaccio, mi sembra quasi di sentire le voci dei colleghi seduti al ristorante che si perdono nella sera senese. Quasi quasi li raggiungo portandomi dietro il manoscritto e li metto al corrente. Leggo loro l’incipit. Spiffero loro (una piccola anticipazione) che la rockstar Mario Belafonte è nato a Santiago de las Vegas, Cuba. La stessa, identica città natale di Italo Calvino. Già sento l’urlo di Marinelli: «Ma allora è un romanzo autobiografico! Calvino si è mascherato da rockstar per raccontare la sua stanchezza del mondo intellettuale!».

Ma il colpo di grazia deve ancora arrivare. Mario è amico intimo di Castro, dico agli inviatoni. Il dittatore lo considera il fiore all’occhiello del regime. Se solo Fidel venisse a sapere che medita di abbandonare la musica, di gettare il sassofono nel Malecón, lo bollerebbe all’istante: disertore, traditore della Patria. E un traditore, a Cuba, sa bene quale sia il suo destino. Magari non un plotone d’esecuzione, ma una morte civile altrettanto definitiva.

A quel punto l’urlo di trionfo di trionfo di Corsetti si sentirebbe in tutta Siena: «Aaaah! Ecco cos’è! È un romanzo politico! Un j’accuse mascherato contro il regime castrista!».

Infine dico loro un’ultima cosa. Che questa rockstar cubana, amica di Castro, riceve lettere da una miliardaria collezionista di amanti famosi. Una donna su cui circolano voci sinistre, sussurri di morte che seguono i suoi capricci. E qui si leva al cielo l’urlo un po’ ansimante di Gloria: «Ma allora è una storia d’amore, è un romanzo a chiave!».

Bevo un altro sorso di whisky. Il sapore brucia, ma scalda anche.

I fogli sul letto sembrano pesare tonnellate mentre li raccolgo nella cartella gialla che li contiene. Devo trovare un posto sicuro in cui nasconderla. Domattina affitterò una cassetta di sicurezza al Monte dei Paschi. Adesso porterò il romanzo con me a cena. Mi farà compagnia. Non lo lascio certo in albergo con quei loschi figuri assetati di scoop nei dintorni.

(Fine diciannovesima puntata - continua)

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