Lorenzo all’inizio rideva e poi piangeva. Succede. È una questione di energia. Quando se ne accumula in abbondanza, nulla resta com’era. Una stella si espande o collassa, e la stella Simonelli a Glasgow aveva energia in eccesso. È andato in pista con la sfrontatezza dei 21 anni e dei primi Mondiali da correre, aggiungendo a questo intruglio micidiale pure l’incredulità di trovarsi affianco il mito dei miti nella sua gara, un signore americano – Grant Holloway – che non perde da quando lui era ancora bambino e si era appena trasferito in Italia dalla Tanzania, il paese di mamma. Papà Simonelli è un antropologo, un ricercatore, ha conosciuto sua moglie in missione. Lorenzo ha fatto nuoto fino alle scuole medie perché sì, perché ti fa bene, e dopo ha cominciato a saltare gli ostacoli perché sì, perché ne trovi e allora devi imparare a scavalcarli, ragazzo.

Lorenzo all’inizio rideva e poi piangeva. Ha fatto i gesti che alla partenza di una corsa di atletica ha inventato Usain Bolt, si è coperto un occhio, se lo è scoperto, ha fatto il fico e lo splendido. Ha detto che in finale ci avrebbe fatto vedere Gear Five, «prometto solo questo, Gear Five, pochi capiranno», e noi boomer no, boh, chi li capisce ‘sti ragazzi, «scordati che mi conosci» come canta Lazza.

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Il manga di Simonelli

Ma Simonelli l’hanno capito quelli come lui, i ragazzi che sanno tutto dei manga. Hanno capito che la promessa era solenne, avrebbe fatto la mossa più potente che riesce a Monkey D. Rufy oppure Luffy, un personaggio di One Piece, la mossa che gli fa assumere le proprietà della gomma, dandogli una libertà senza pari e una nuova disinvoltura nell’azione. Ecco cos’era quel gigantesco copricapo che aveva al traguardo, il cappello di paglia dei pirati che Monkey raccoglie intorno a sé, una ciurma con cui mettersi in viaggio verso la Rotta Maggiore per cercare un tesoro. Ma noi dopo i cinquant’anni cosa ne sappiamo più di pirati e di tesori, di avventure, di coraggio, nemmeno lo vediamo più quando i ragazzi sono belli, altruisti, spensierati, «scordati che mi conosci».

Quando invece Luffy si trasforma è in grado di modificare il terreno intorno, lo rende completamente elastico, come in effetti elastica pareva la corsia 1 nella finale dei 60 ostacoli, la corsia che ha portato Simonelli fino all’argento mondiale indoor con il record italiano. Solo che quando l’energia raggiunge il limite, si disattiva da sola e lascia Monkey D. Rufy inerme e vulnerabile, gli fa dire allora che «non so se ridere o piangere, sto impazzendo», gli fa dire «grazie mamma, grazie papà» con l’accento romano.

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Lo Spiderman di Mattia Furlani

«Grazie mamma» lo ha detto pure Mattia da Rieti, anche lui aveva finito l’energia dopo averla scaricata dai piedi nella buca della sabbia. Mamma Kathy è pure la sua allenatrice. È stata una velocista, viene dal Senegal, sono 5mila km di distanza dalla Tanzania, cinque volte Roma-Parigi, la tratta che la stella Furlani si è messa in testa pensando alle Olimpiadi da quando salta in lungo e salta tanto, 8 metri e 22 alle 10 del mattino ora di Scozia, la stessa misura di un signore greco che ha vinto le Olimpiadi e i Mondiali, il campione Tentoglou, stavolta salvo grazie a una seconda misura migliore.

Era elastica pure la pista di Mattia, anche se lui non mette cappelli di paglia, non modifica il terreno, non parla di anime. È un tradizionalista, il suo immaginario viene dal mondo della Marvel, lui imita Spiderman, le ragnatele, quella roba là. Si esibisce da quando gli hanno fatto notare la somiglianza con Miles Morales, l’erede di Peter Parker. Ce lo fai vedere, Mattia. E Mattia fa Spiderman. Ma poiché le stelle collassano tutte allo stesso modo, gli sono venuti i singhiozzi e certe gocce di lacrime grosse così con la medaglia d’argento in mano davanti alla telecamera della Rai.

«Incredibile. La mia prima medaglia di questo calibro, alle 10 del mattino contro il campione olimpico. Devo solo proseguire su questa strada. Ho acquisito esperienza in questi mesi per le gare importanti. Con tutto il lavoro svolto è veramente incredibile. L'ho sognato tanto, raggiungerlo è un'altra cosa. Devo tutto a mia madre. Dedico la medaglia a tutti quelli che mi hanno sostenuto, che hanno lavorato con me nel mio percorso. È la prima tappa, bisogna stare con i piedi a terra». Oddio i piedi a terra per il salto in lungo meglio di no. Sulle metafore bisogna lavorare.

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Lo sprint di Zaynab Dosso

Su tutto ha lavorato Zaynab, che in arabo significa saggezza. Zaynab Dosso, nata in Costa d’Avorio, arrivata in Italia nel 2009 da Abidjan per ricongiungimento con i genitori partiti sette anni prima, cercavano un lavoro. Sette anni nei quali è cresciuta in Africa con i nonni - che certe volte ti capiscono più di mamma e papà, i nonni sono il contatto con un prima che non hai conosciuto, che non sai immaginare, sono i testimoni dei giorni che non hai vissuto. Zaynab è cittadina italiana dal 2016. Ha scoperto l’atletica quando aveva 13 anni grazie all’insegnante di educazione fisica e con la medaglia di bronzo vinta nei 60 metri adesso dice che «crederci è bello, ma realizzarlo è incredibile. Il mio è un pianto di gioia, sono felice. Lavori tanto, non riesci mai a raccogliere, quando succede rimani senza parole. Forse realizzerò tutto domani. Non voglio più togliermi questa bandiera di dosso. Quando ho visto Simonelli con l'argento, mi sono detta che dovevo portare anche io qualcosa a casa».

Lei parla con l’accento emiliano, per casa intende proprio questo posto chiamato Italia, dove tutto pare più bello, più pulito, più normale, dove tutto gira nel verso giusto quando le nostre ragazze e i nostri ragazzi scavalcano ostacoli, saltano in lungo, corrono, quando hanno mini e super eroi che noi non conosciamo, quando hanno la loro gigantesca storia e un loro mondo da raccontare. Se solo noialtri sapessimo ascoltarli.

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